Ai giovani non interessa nulla dell’Italia, e hanno ragione da vendere

Per capire quanto all’Italia interessi dei giovani basta guardare l’offerta del Capodanno televisivo, un Paese costruito a misura di chi sa a memoria “Felicità”. Risparmiate le prediche ai giovani: questo non è il loro Paese. Piuttosto, meglio un “buona fortuna”

E se non fosse sfiducia, se fosse più semplicemente un generalizzato “chissenefrega”? La sparizione degli under-30 dallo spazio politico preoccupa gli analisti e le istituzioni: a dargli concretezza c’è un sondaggio di Ipr Marketing secondo cui tra i diciotto e il vent’anni, cioè l’età in cui si sperimenta la partecipazione elettorale e tutto dovrebbe risultare nuovo e appassionante, solo tre su dieci vanno alle urne. Gli altri sette non sono interessati, e solo una minima parte di loro (un risicato cinque per cento) crescendo farà l’esperienza di mettere una croce sulla scheda.

Mica mancano solo ai seggi, questi giovani. Se ne è persa ogni traccia nell’intero spazio pubblico. Il Capodanno degli ottuagenari messo in scena da RaiUno e Canale5, con quei palchi ai limiti dell’Alzheimer e quelle colonne sonore da Villa Arzilla, ha reso chiaro a chi è rivolta l’offerta pubblica dei tempi nuovi: persone che sanno a memoria “Felicità”, probabilmente accomodate su una poltrona ad alzata assistita. E non si dica “è solo show”: la televisione delimita il perimetro dell’interesse collettivo e stabilisce qual è lo standard al quale si rivolgono le attenzioni e gli investimenti dei circuiti che contano qualcosa.

Perché i giovani dovrebbero in qualche modo partecipare a una festa alla quale, palesemente, non sono inviati né graditi? In altri tempi, ad esempio nel mitologico 1968 di cui si è appena inverato il cinquantenario, avrebbero sfondato la porta, messo la loro musica, imposto la loro presenza e costretto gli adulti in cucina. Ma allora erano tantissimi: nell’anno scolastico 1962-1963 gli alunni delle scuole medie, quelli cioè che si preparavano al gran salto verso il liceo e il diritto di voto, erano quasi cinque milioni. Oggi i ragazzi tra i 15 e i 19 anni sono meno della metà, e il 10 per cento di loro sono stranieri cioè programmaticamente esclusi dalla cittadinanza. Non hanno i numeri né per imporsi né per contare qualcosa, e infatti non ci provano nemmeno.

Il Capodanno degli ottuagenari messo in scena da RaiUno e Canale5, con quei palchi ai limiti dell’Alzheimer e quelle colonne sonore da Villa Arzilla, ha reso chiaro a chi è rivolta l’offerta pubblica dei tempi nuovi: persone che sanno a memoria “Felicità”, probabilmente accomodate su una poltrona ad alzata assistita

Il paternalismo con cui tutti noi cerchiamo di convincere questi ragazzi a interessarsi al nostro mondo è lodevole, ma del tutto inefficace. La straordinaria avventura politico-esistenziale dei baby-boomers non si ripeterà, anche perché se si ripetesse non ci sembrerebbe così desiderabile, esattamente come ai nostri genitori non sembrò affatto suggestiva la cultura dell’assemblea e della protesta che per un ventennio – tra il ’68 e il ’77 – squassò la società, i partiti, le abitudini, le convenzioni e tutte le sicurezze delle classi dirigenti. Vorremmo davvero folle che buttano giù dal palco la Camusso come a suo tempo fecero con Lama? O università dove i rettori sono costretti a entrare dalle porte di servizio? Ovvio che no. E però dove i giovani sono molti e “partecipano” (vedi, da ultimo, le proteste in Iran) le modalità sono queste. Difficile immaginare che diano il loro contributo votando i partiti di governo o di quasi-governo e applaudendo ai loro comizi.

Il chissenefrega silenzioso con cui i ragazzi italiani stanno cercando le loro strade lontano dalla politica e dalla Res Publica come la intendiamo noi – non solo all’estero ma anche in tutti gli interstizi lasciati liberi dal protagonismo adulto e senile – appare più che un insulto l’estrema arma di difesa di una minoranza in grave difficoltà, e come tale merita rispetto. È la loro risposta alla società del si-salvi-chi-può: abbiamo altro da fare, altro di cui preoccuparci, altro da capire per coltivare i nostri desideri, le nostre ambizioni, mettere a frutto le nostre energie. Piuttosto che fargli prediche piuttosto pelose una volta ogni cinque anni, sarebbe meglio dirgli “buona fortuna”.

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