È allarmante o rassicurante sapere che l’81% delle imprese dei settori della casa-arredo, meccanica e moda, nel Nord Italia, non usa alcuna delle tecnologie associate all’industria 4.0, come le macchine per il taglio laser, i robot industriali, la manifattura additiva (cioè le stampanti 3D) , l’Internet delle cose industriale e i software per analizzare i big data? Il dato viene dal primo Rapporto Industria 4.0 delle Pmi italiane e la risposta alla domanda è: non importa. O meglio: è un dato basso ma è più importante sapere che le aziende che adottano le nuove tecnologie hanno risultati tangibili in termini di redditività, hanno le idee chiare sui vantaggi strategici da ottenere e, soprattutto, non hanno bruciato alcun posto di lavoro a seguito dell’adozione dei macchinari avanzati. Ne è convinto uno dei curatori dello studio, Marco Bettiol, docente di economia e gestione delle imprese nell’ateneo padovano, assieme alla professoressa Eleonora Di Maria. La ricerca è frutto del nuovo Laboratorio Manifattura Digitale nato all’interno del Dipartimento di Scienze economiche Marco Fanno.
«Il 20% di aziende adottanti è una quota non elevata – spiega Bettiol -. Ma quello che conta è che dentro questo 20% non ci sono solo grandi imprese ma anche piccole imprese. È un dato controintuitivo rispetto al dibattito, che vede associata l’industria 4.0 solo alle grandi imprese».
All’interno di chi ha adottato almeno una tecnologia “4.0”, il 40% è rappresentato da una piccola impresa, con un fatturato compreso tra i 2 e i 10 milioni di euro. È un’adozione fortemente influenzata dal settore di appartenenza: la stampa 3D è usata soprattutto nel settore orafo e nell’occhialeria; l’Iot, cioè l‘internet delle cose applicato all’industria, nell’illuminazione. La robotica nell’automotive e nella produzione di mobili. «Il secondo aspetto chiave della ricerca è che i processi di adozione sono molto selettivi – aggiunge il docente -. Non c’è un’adozione in eccesso: gli imprenditori acquistano solo quello che pensano dia loro un risultato concreto».
E qui si arriva al terzo punto rilevante: i risultati ci sono. «Abbiamo verificato che il Roe (return on equity, ndr) aumenta con l’adozione di una o due tecnologie. Curiosamente, con un numero maggiore di tecnologie si vedono progressi meno evidenti», aggiunge il docente.
Tutto questo, va detto, avviene anche in assenza di incentivi. L’indagine è stata svolta tra il marzo e il settembre 2017 (su 5.421 imprese, tra cui ci sono state 668 risposte), prima quindi che il piano Industria 4.0 (o piano Calenda) entrasse nel vivo, dato che la maggior parte delle certificazioni sono avvenute dopo l’estate del 2017. Non solo: per quanto l‘etichetta di Industria 4.0 sia abbastanza recente, l’adozione delle tecnologie monitorate è avvenuta prima, in media tra il 2007-2013.
Solo un’azienda su cinque, nel Nord Italia, nei settori della meccanica, moda e arredo, ha tecnologie dell’Industria 4.0. È un dato basso ma è più importante sapere che queste aziende hanno risultati tangibili in termini di redditività, hanno le idee chiare sui vantaggi strategici da ottenere e, soprattutto, non hanno bruciato alcun posto di lavoro a seguito dell’adozione dei macchinari avanzati
Questo sguardo lungo permette di dare segnali molto rassicuranti relativi al lavoro: tra le imprese che hanno adottato le nuove tecnologie, solo il 2% dichiara che l’investimento sulle nuove tecnologie ha avuto come impatto una diminuzione degli occupati. Ben il 40% dichiara che l’impatto è stato un aumento degli occupati, mentre poco meno di sei su dieci ritiene che il risultato sia stato una stabilità del lavoro.
Come si spiega questo dato? Per avere una risposta bisogna scandagliare le motivazioni che portano all’adozione dei macchinari innovativi. L’ottenimento più efficienza è solo al secondo posto tra le motivazioni. Al primo c’è la volontà di migliorare il servizio al cliente. È un dato che si lega agli impatti ottenuti a seguito dell’introduzione della tecnologia: i primi tre risultati vedono appaiati l’aumento della produttività, l’efficienza e l’incremento della qualità del servizio al cliente. Non solo: viene anche aumentato il valore legato al prodotto in termini di personalizzazione (grazie alla co-progettazione), di servizi collegati e tracciabilità e di controllo sul prodotto.
GLI HIGHLIGHT DELLA RICERCA
Tra le imprese che hanno adottato le nuove tecnologie, solo il 2% dichiara che l’investimento sulle nuove tecnologie ha avuto come impatto una diminuzione degli occupati
«Il dato strategico è interessante – tira le somme Bettiol -. Gli imprenditori sembrano avere le idee chiare sul fatto che la sola efficienza da sola non porta lontano. Dai risultati emerge che adottano le tecnologie per avere un miglior servizio e poi scoprono che aumenta anche la produttività». Questo approccio si ritrova anche nei casi aziendali inglobati nella ricerca. Uno dei nomi più noti è quello del produttori di arredo (soprattutto sedie) Arper, di Monastier di Treviso, che ha toccato i 72 milioni di fatturato, con una quota di export del 93% e 160 dipendenti. Nella fabbrica i robot svolgono attività ripetitive e standardizzate, mentre le persone si focalizzano nella dimensione artigianale del prodotto. «Nel momento in cui un’azienda come Arper vende una sedia in Sudamerica, deve essere certa che non avrà mai problemi, altrimenti il costo di riparazione o sostituzione sarà altissimo. In questo senso miglioramento del servizio al cliente e redditività vanno di pari passo».
L’adozione della robotica nella produzione di mobili è uno degli aspetti che più possono sorprendere. Questo accade sia per il progressivo abbattimento dei costi dei robot sia per l’elevato ricorso all’usato, soprattutto dal settore automotive.
I segnali positivi dunque ci sono, ma non possono nascondere i molti limiti, che emergono dalle risposte di dichiara di non adottare le nuove tecnologie. La prima delle motivazioni è la convinzione che queste tecnologie non siano di interesse per il business aziendale (66%). La seconda è che le imprese si chiamano fuori dagli investimenti perché si vedono come imprese troppo piccole (27%). Oltre il 90% delle imprese non adottanti rientra nella classe delle micro e piccole imprese. Questi limiti, sottolinea Bettiol, sono più culturali che reali. «Abbiamo riscontrato una posizione molto polarizzata, quasi manichea: o c’è repulsione verso le nuove tecnologie, senza neanche la voglia di informarsi; oppure c’è un’attenzione forte, anche da imprese medio-piccole».
Spetterà alle edizioni successive della ricerca vedere se il piano di incentivazione pubblica ha contribuito a un cambio di passo che oggi si vede solo in parte.