L’austerità fa crescere, la spesa pubblica no (e adesso lo dicono pure i numeri)

Undici Paesi su ventisei, in Europa, hanno il bilancio in pareggio. E, caso strano, sono pure quelli che crescono di più: non è vero che che spendere di più fa crescere il Pil: non avviene né in Italia, né altrove

Non è passata come buona notizia anche perchè probabilmente per molti buona non è, ma sarebbe dovuto essere degno di nota il fatto che forse mai così tanti Paesi risultavano, negli ultimi dati disponibili, in pareggio o in avanzo in Europa. Si parla del rapporto deficit/Pil, quello che per il trattato di Maastricht dovrebbe rimanere sotto il 3%, limite che molto indicano come penalizzante.

Eppure 11 Paesi nel 2016 sono andati oltre e sono riusciti a far calare le spese al di sotto delle entrate (o a far salire queste ultime al di sopra delle uscite). Non c’è solo la solita Germania, in avanzo dello 0,8% sul PIL, o la Svezia e i Paesi Bassi, ma anche la Grecia! Con un +0,5%. E poi Bulgaria, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, a Est. Malta e Cipro, e il Lussemburgo.

L’Italia è sotto della media Ue, con un deficit del 2,5% mentre in fondo alla classifica vi erano Francia e Spagna, anche se naturalmente quello che va valutato è il trend, non solo il valore di un anno. A questo scopo l’indicatore più efficace è il saldo primario che depura il dato dalla spesa per interessi, la croce di molti Paesi tra cui il nostro.

Ed è qui, nella differenza pura e semplice tra entrate e uscite, che si vede il deterioramento della posizione italiana a confronto con quella degli altri Paesi. Eravamo in testa nel 2013 , assieme a Germania e Ungheria, quanto a saldo primario in Europa, con l’1,9%. Poi man mano siamo scivolati indietro. Nonostante la ripresa e la maggiore crescita il nostro saldo non è aumentato, anzi, e nel 2016 con il 1,5% eravamo al 11esimo posto. Non solo la Germania, ma anche la Grecia, il Portogallo, la Croazia, la Repubblica Ceca, ecc, facevano meglio di noi. Per il 2017 le previsioni autunnali della Commissione Europea ci affibbiano un avanzo del 1,7%, potremmo migliorare di qualche posto nel ranking, ma tutto dovrà ancora essere confermato. La Spagna nel 2016 era all’ultimo posto, ma con un disavanzo primario del 1,7% aveva comunque fatto progressi rispetto ai dati degli anni precedenti. Nel 2013 questo era a un -3,5%, nel 2014 al -2,5%, nel 2015 al -2,2%

Ora: questo allentamento dell’attenzione sullo stato dei conti ci ha portato beneficio? Questo “rifiuto dell’austerità” ha aiutato la nostra crescita a far meglio rispetto a quella dei nostri vicini? La risposta è evidentemente No. Mentre nel ranking dei migliori saldi primari perdevamo posizioni, in quello, molto meno invidiabile, della peggiore crescita del PIL, rimanevamo saldi sul podio, almeno tra i membri della zona euro. Che ci sia stata la Grecia, o la Finlandia o Cipro a salvarci di volta in volta dalla prima posizione, le cose non sono cambiate negli anni. Anzi, siamo passati dal terzo al secondo posto.

Per il 2017 è previsto un balzo al 1,5/1,7%, e tuttavia sarà a traino di uguali o migliori risultati da parte degli altri Paesi, tanto è vero che rimarremo tra i due o tre peggiori, assieme a Belgio e Grecia.

Il fatto è che in questi ultimi anni abbiamo scientemente perseguito una strategia che ci ha portato a diminuire il nostro vantaggio rispetto all’area euro quanto a deficit/Pil e saldo primario. Lo avevamo già fatto, soprattutto per quanto riguarda il secondo, durante i governi di centrosinistra e centrodestra tra metà anni ‘90 e metà anni 2000, quando il risparmio nella spesa per interessi era stato prevalentemente speso, e solo in parte era stato utilizzato per il calo del debito, in particolare dopo il 2000.

Dopo il 2006 Padoa Schioppa e Tremonti avevano riportato i conti italiani in una posizione migliore rispetto alla media, ma dal 2011 il consueto andazzo è ripreso, ed è continuato anche negli anni della ripresa, quando anche l’alibi della recessione ormai era svanito.

È un vecchio riflesso che qualcuno eleva ad adesione al presunto credo keynesiano, basato sul privilegio della domanda e sul tentativo di non deprimerla. Tuttavia si conferma non molto efficace. Soprattutto a confronto di quanto accade altrove. Un confronto ineludibile – non siamo e non possiamo essere una monade – ogni traguardo che raggiungiamo non può che essere giudicato che in paragone con quello degli altri Paesi, anche quando è positivo.

Certo, nei Paesi in cui la spesa è calata meno si è avuta meno crescita, relazione quanto netta quanto del resto biunivoca, perchè si può anche dire che laddove il Pil è sceso o aumentato meno non ci si è potuti permettere molto di scialare.

E tuttavia facendo una correlazione sfalsata di un tre anni, confrontando le decisioni di spesa nei momenti più decisivi della crisi, nel 2011-2013, con la crescita successiva nel 2014-2016 non si trova alcuna conferma ai presunti danni da austerità. Anzi, troviamo che Paesi che più di altri avevano accresciuto la spesa primaria corrente come Belgio o Finlandia non hanno poi molto giovato in termini di aumento del PIL. Sono cresciuti invece meno di Stati che, come Spagna, Grecia, Portogallo, avevano applicato, loro sì, una vera e proprio austerità con dei tagli alle proprie uscite L’Italia, in questa classifica, è nel mezzo: non ha mai fatto dei veri tagli, ma ha mantenuto una crescita della spesa simile a quella di Paesi Bassi e Lituania, salvo veder crescere il Pil molto meno di loro, negli anni successivi.

Il fatto è che non è vero che che spendendo di più il Pil cresce maggiormente, non accade in Italia e non accade in altri Paesi. Una maggiore spesa pubblica, come insegna il caso della Germania, può essere la conseguenza, non la causa, di anni di aumento del Pil soddisfacente, provocato da una alta produttività, per esempio. Viceversa, oggi gli sforzi di quei Paesi che o hanno raggiunto il bilancio o hanno diminuito il deficit in modo netto, stanno dando i propri frutti. In Portogallo, in Spagna, in Slovenia, nei Paesi Bassi.

Nonostante tutto questo, non impariamo la lezione. La campagna elettorale italiana non è ancora entrata nel vivo, eppure le promesse di spesa relative a redditi di cittadinanza o di dignità, a gratuità e bonus vari, all’abolizione della riforma delle pensioni, già implicano esborsi miliardari. Questione di Dna, probabilmente.

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