L’incompetenza al potere. Abbiamo sfiduciato i politici, ci restano i dilettanti

Le capacità sono diventate una colpa, l’inesperienza un valore aggiunto. E così il Parlamento sta diventando un ritrovo di dilettanti. Un tempo le classi dirigenti venivano selezionate in base alle competenze, oggi grazie a servilismo e dati anagrafici. Ma a pagare il prezzo è tutto il Paese

A furia di criticare i politici di professione, stiamo regalando il potere agli incompetenti. È il frutto avvelenato della rottamazione. L’effetto, neppure troppo collaterale, di un’epoca votata al rinnovamento a tutti costi. Le capacità sono diventate una colpa, l’inesperienza un valore aggiunto. L’età si trasforma in un requisito imprescindibile: spazio ai giovani, anche se privi di qualità. È la rivincita degli incapaci. Un tempo per diventare parlamentare bisognava fare la gavetta. Erano necessarie cultura e competenze. Oggi il modello è cambiato. La politica non è più una missione, ma un mestiere. Meglio se temporaneo, magari da intraprendere con il giusto dilettantismo.

Deputato per quattro legislature, il democristiano Gianfranco Rotondi ha una posizione evidentemente controcorrente. Pochi mesi fa ha scritto un libro che sembra una provocazione, Meglio la Casta. L’ex ministro berlusconiano evidenzia i limiti dell’antipolitica, la nuova stagione non lo convince. «Anche Alcide De Gasperi era un professionista della politica – spiega – eppure in cinque anni trasformò le macerie nel miracolo economico italiano». Il tema non riguarda solo il nostro Paese, anche se da noi sembra essere centrale. «In Germania, e non solo, comandano ancora i politici di professione» insiste Rotondi. «Forse non è un caso se loro galoppano, mentre l’Italia declina e si immiserisce». La Prima Repubblica è lontana. L’elezione in Parlamento era considerata un punto di arrivo, oggi rappresenta l’inizio di nuove carriere. Non stupisce il tasso di impreparazione di molti politici, anche culturale. Nella legislatura appena conclusa i deputati laureati rappresentavano il 69 per cento del totale. Nella prima legislatura repubblicana, dal 1948 al 1953, erano il 91 per cento. Oggi la vita di Palazzo si affronta senza troppa esperienza, all’insegna del dilettantismo.

Pino Pisicchio, presidente del gruppo Misto e parlamentare di lungo corso, ha utilizzato proprio questo termine nel suo ultimo libro. I dilettanti. Splendori e miserie della nuova classe politica. Tra le pagine si scopre che in questi anni la competenza è stata spesso sacrificata sull’altare del ricambio generazionale. Nell’ultima legislatura, per esempio, il 66 per cento dei nostri parlamentari risultava alla prima esperienza. Un’esagerazione tutta italiana. «Le ultime tre legislature all’Assemblea Nazionale francese fanno registrare il 37,6 per cento, il 22,87 e il 30,32 di cambiamento. Nella Camera dei Comuni inglese in questa legislatura il tasso di rinnovamento è del 34,92 per cento. Abbastanza alto, considerate le due legislature precedenti: 18,30 e 14,1 per cento».

Il fenomeno è trasversale, sia chiaro. Affonda le sue radici negli anni Novanta e culmina, oggi, con l’ascesa dei Cinque Stelle. In questi giorni la votazione online dei futuri parlamentari grillini evidenzia tutte le difficoltà nel selezionare le classi dirigenti. Deputati e senatori pentastellati sono scelti sulla base di una consultazione in rete contraddistinta da accuse, ricorsi e veleni. È la democrazia diretta, si dirà. Anche se l’ultima parola spetta al capo politico, che ha il potere di bloccare ogni candidatura a suo insindacabile giudizio. Intanto in corsa per un seggio ci sono almeno 15mila aspiranti parlamentari, spesso privi di qualsiasi esperienza. Una competizione contraddistinta, in molti casi, dall’incoerenza di chi dopo aver disprezzato per anni la politica adesso sgomita per entrare nel Palazzo. Non solo Cinque Stelle, però. Se il M5S nasce in antitesi ai professionisti della politica, non sono pochi i partiti che subiscono il fascino della società civile. Nulla di male, per carità. Contaminare le aule parlamentari con specifiche competenze è un dato positivo. Un po’ meno se la candidatura di sportivi o personaggi famosi è solo un modo per conquistare più voti. «È l’insicurezza di una politica figlia di un dio minore» racconta ancora Rotondi. «Una volta proposero a Giulio Andreotti di inserire in lista un noto rettore universitario. “Ma se ha già un mestiere perché gliene dobbiamo cercare un altro?”, disse. Ovviamente non lo candidò».

Più volte ministro, deputato e senatore per cinque legislature, Rino Formica resta uno dei più illustri rappresentanti della Prima Repubblica. La sua lucida analisi del fenomeno parte proprio dalle differenze con quel periodo. «Prima i parlamentari erano selezionati sulla base delle esperienze» racconta. «Prendiamo il caso delle commissioni Lavoro: spesso gli esperti di previdenza venivano dal sindacato. C’erano parlamentari di tutti i partiti che vantavano competenze persino superiori ai ministri». La selezione della classe dirigente non era casuale. «I professionisti politici della Prima Repubblica non erano coloro che conoscevano tutto lo statuto del partito o sapevano come organizzare un comizio. E la prova è l’adesione, nel momento in cui si costituirono i partiti, da parte di tanti professionisti: avvocati, ingegneri, magistrati. Persone che decidevano di entrare in politica e abbandonavano la loro esperienza lavorativa. Voglio ricordare Michele Cifarelli, che nel 1945 aderì al Partito d’Azione e si dimise da magistrato per fare il funzionario di partito. E così avveniva ovunque». Poi sono arrivati gli anni Novanta, l’avvento della Seconda Repubblica e la personalizzazione della politica. Adesso, nei partiti di proprietà dei leader di turno, «alle competenze viene chiesta anche obbedienza servile».

La nuova stagione non è priva di rischi. Una classe politica incompetente rappresenta un problema anche per la democrazia. Forse non è un caso se l’astensionismo continua a crescere e gran parte dei giovani non va più a votare. E mentre l’esperienza diventa superflua, nel Palazzo prosegue il ricambio generazionale. Molti politici di vecchio corso si sono arresi all’evidenza. Pochi giorni fa Antonio Martino, tra i fondatori di Forza Italia, ha consegnato il suo sfogo al Quotidiano Nazionale. Dopo sei legislature anche lui lascia. «Andare in Parlamento è ormai un tormento che non voglio più infliggermi. Una volta c’erano persone di grande valore, ora è in mano alle masse, ai mediocri. L’ambiente umano è pessimo». Stessa scelta per un democristiano come Carlo Giovanardi. Dopo venticinque anni tra Montecitorio e Palazzo Madama, stavolta non si candiderà. Alla cronaca bolognese di Repubblica ha spiegato i motivi del passo indietro. «Quando sono entrato avevo di fronte dei giganti, adesso sembra che l’inesperienza sia una virtù». E se fosse solo una questione di necessario rinnovamento? Il senatore non sembra avere dubbi: «Se lei dovesse subire una delicata operazione, cercherebbe il miglior chirurgo in circolazione o uno studente iscritto al primo anno di medicina?».

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