A Palazzo Grassi a Venezia si è conclusa da pochi giorni la grandiosa mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst: il quotatissimo artista contemporaneo ha simulato il ritrovamento del carico di una nave antica piena di incredibili tesori. Ma fra statue di Topolino e busti della cantante Rihanna, l’inganno dura poco, anche se molti visitatori giravano per le sale con un dubbio ricorrente: saranno opere autentiche? “La verità giace da qualche parte fra le bugie e la verità” era la scritta che accoglieva all’ingresso della mostra ed è questo, credo, che la rende una delle più ironiche e suggestive testimonianze di questa nostra epoca in cui i contorni delle certezze vengono sfumati dalle sempre più insistenti ombre del dubbio.
Da Democrito (che, appunto, diceva: “La natura ha sepolto la verità nel fondo del mare”) in poi, l’umanità si è sempre interrogata sul concetto di verità. Non solo la filosofia e l’arte, ma anche la nascita stessa dei romanzi, e poi del cinema e di tante altre forme di espressione umana: la finzione è, paradossalmente, un’invenzione che l’uomo ha introdotto per indagare meglio la realtà. Eppure oggi questi aspetti assumono un’importanza ancora più essenziale perché sulla verità e l’affidabilità si giocano importanti partite che hanno in mano i destini della nostra società: quelle della libertà di espressione, della responsabilità e – in definitiva – del potere.
Se un tempo infatti si consideravano detentori della verità coloro che erano più vicini a Dio, la rivoluzione scientifica, la laicizzazione della società e progressivamente l’avvento dell’epoca contemporanea hanno frammentato il fronte dell’incrollabile certezza. Di chi fidarsi dunque? Degli scienziati? Dei politici? Dei guru della tecnologia? Di nessuno? Rispondere a questi quesiti non è affatto banale. Anche io fatico a darmi una risposta definitiva, eppure è su questo filone che si definirà il nostro futuro. Perché dalla verità deriva la fiducia e dalla fiducia la legittimazione a prendere decisioni per gli altri, per la comunità.
In un mondo che non crede in nulla, neanche ai dati numerici e alle verità scientifiche, imporre un nuovo tipo di fiducia può essere l’unica soluzione. Riscoprire la forza e la lucidità dell’individuo, dunque, può servire affinché si ristabilisca uno slancio di fiducia nelle istituzioni più grandi di lui
Tuttavia è una sensazione condivisa che oggi non ci possa (o non si voglia) più fidarsi di nessuno. “La fiducia è come l’energia: non si distrugge, ma si modifica” afferma però Rachel Botsman, docente alla Business School dell’università di Oxford, che ho intervistato recentemente a Milano. Il suo ultimo libro, Who Can You Trust? (PubblicAffairs), è appunto un’acuta disamina delle relazioni sociali e tecnologiche che noi tutti intrecciamo al giorno d’oggi: secondo Botsman siamo in un’epoca in cui la fiducia non si è annullata, semplicemente si è disgregata ed è passata dalle istituzioni agli individui. Se prima riponevamo le nostre speranze negli stati, nelle associazioni, nelle aziende o nei partiti, ora invece ci rivolgiamo alle singole persone.
Che siano la nostra rete di conoscenze sui social o gli estranei da cui ci facciamo dare un passaggio con Uber o nella cui casa ci facciamo ospitare con AirBnb, oggi siamo abituati a distribuire la nostra fiducia su una scala molto più piccola, individuale. «Le persone hanno perso la loro fiducia nell’establishment e nell’élite. È come un virus che si sta diffondendo sempre più velocemente», ha dichiarato la studiosa. Perché siamo tutti d’accordo che instaurare rapporti umani fra individui è fondamentale nella vita di tutti i giorni, ma importante è anche ciò che ci rappresenta su una scala più grande, a un livello più generale.
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