Umberto Galimberti è solo un vecchio che fa finta di far parlare i giovani. Riscopriamo invece la grande psicoanalisi di Norman O. Brown

Il bastone e la carota. Un libro stroncato e uno elogiato. L'ultimo libro di Galimberti è un tentativo infelice di farsi portavoce dei giovani: megafono della psicoanalisi pop. Meglio farsi accompagnare da Norman O. Brown in un periplo dentro la grande cultura occidentale

Il bastone. Sottotitolo: il vecchione e il suo harem. Non mi si prenda per granitico vizioso, per un viziato psicopornocrate. Sgrano nudi dati di fatto. Primo capitolo. Tra Maria, Michela, Gaia, Paola e Mia, su 10 lettere 9 sono di balde fanciulle. Secondo capitolo. Su 8 lettere, 1 è di un maschietto, 6 sono femminucce, uno si firma gf, chissà a di che sesso è. Quarto capitolo. 5 lettere, 4 di fan femme, 1 è un maschio. Insomma, nell’ultimo libro di Umberto Galimberti, che s’intitola come un talk show dei malmostosi anni Settanta, La parola ai giovani, parlano solo le giovani, che si strappano i capelli al cospetto dell’Umbertone della psicoanalisi (“Sono una ragazza di vent’anni che la ammira molto”, scrive Giulia, e noi le crediamo, ma un certo senso del decoro editoriale indurrebbe a censurato la frase…) manco fosse Bruce Springsteen (inquietante, piuttosto, la somiglianza di Umbertone con Bernard Hill, quello che nel Signore degli Anelli interpreta il re di Rohan, Théoden, vedere per credere). La risposta non va cercata nella capacità seduttiva del ‘matusa’ che liofilizza Freud in una pasticca per la buonanotte – leggere la prosa di Galimberti fa fare il tango alla palpebra, fate il casqué tra le braccia di Morfeo. Il fatto è che l’ultimo libro di Galimberti non è un libro, ma nessuno ve lo dice, tanto meno l’editore. Trattasi, infatti, di un collage di articoli usciti “per la mia rubrica su D, l’inserto femminile di Repubblica”: ecco perché l’arzillo Umberto fa il vegliardo nell’harem. Specificato questo, il libro è una filosofica sola. Galimberti è un fatale chiosatore di cliché: quello che lui dice sulla situazione dei gggiovani in 320 pagine, il mio amico Michele Mengoli – l’esegeta sommo di Alberto Forchielli – lo dice in un articolo, per altro più divertente e più informato. Ecco un’infornata del Galimberti-pensiero, che non merita commenti, spiega il suo nulla da sé, è l’eco dell’eco del risaputo. I “mezzi informatici”? “Modificano il nostro modo di pensare”. Eppure, attenzione, “non si tratta di essere pro o contro le nuove tecnologie. Figuriamoci. Sarebbe come se uno, ai tempi di Gutenberg, se la fosse presa con la stampa”, che battuta! La scuola? Ovviamente “non funziona”, ma “naturalmente ci sono anche scuole che funzionano grazie soprattutto a insegnanti motivati e carismatici”. Il lavoro? “C’è il lavoro nero, il lavoro sottopagato, il lavoro sommerso, che non riguarda solo i neri schiavizzati, impiegati in condizioni subumane a raccogliere pomodori, ma anche giovani laureate costrette a vendere gelati”. Il futuro? “Il declino e forse la fine dell’Occidente sono già ben visibili nella condizione di voi giovani che sopravvivete erodendo la ricchezza dei padri, senza essere in grado, e non per colpa vostra, di assicurare una ricchezza ai vostri figli”. L’economia? “Bisogna produrre con il minor costo possibile merci che si rinnovano nel modo più rapido possibile, per una loro sempre più veloce e massiccia circolazione nel mercato”. I social? “Passare molte ore a controllare i propri profili e… senza nulla di davvero interessante da dire, ma solo per assaporare il gusto di avere tanti contatti che danno la sensazione di sentirsi davvero esistenti e per giunta interessanti, lascia intendere il grado di solitudine in cui siamo precipitati”. Per questa sfilza di enfatiche banalità non c’è bisogno di sgangherare dalla tomba Freud, Nietzsche, Deleuze o Heidegger: basta il buon senso di mio zio in tinello. Galimberti è il megafono della psicoanalisi pop, da bar sport, al suo cospetto Caparezza è il massimo esperto di Plotino e Francesca Michielin è Diotima, la somma maestra di Socrate. Il vecchio che fa finta di dare la parola ai giovani – è lui, alla fine, a pontificare, a battezzare, a dare la ricetta per vivere felici dall’attico del suo ego – è un esempio netto di senescenza del pensiero, di obnubilamento psicoanalitico. E poi, che senso ha pagare il prezzo per rileggere una rubrica pubblicata da anni su un magazine femminile? Dovrebbero pagare noi, piuttosto, per tracannare la Weltanschauung à la coque del ‘vecchione’.

Umberto Galimberti, La parola ai giovani, Feltrinelli, 324, euro 16,50

La carota. Non abbiamo tempo da perdere. Questo è il motto della rubrica che leggete. Con una misera specifica etica. Il tempo, in quanto tale, si perde, è perduto, ci porta verso la perdizione. Il tema è: come ‘perdere’ il tempo senza che ci perdiamo? Risposta: leggendo solo grandi libri. Se l’agiografia bibliografia di Galimberti è pressoché interamente da evitare – non avete tempo per perdervi – un libro davvero imperdibile, sinceramente assoluto è Corpo d’amore di Norman O. Brown. Tra i massimi pensatori della psicoanalisi statunitense, Norman O. Brown è conosciuto più che altro per aver psicoanalizzato la storia in La vita contro la morte, libro possente – ma oggi un po’ datato – edito in Italia da il Saggiatore e ora in catalogo Adelphi. Il libro più eccitante, tuttavia, è quest’altro, Corpo d’amore, pubblicato in origine nel 1966, una specie di tortuoso percorso per tappe – da “Libertà” a “Nulla” passando per “Natura”, “Trinità”, “Capo”, “Cibo”, “Resurrezione” – in cui il filosofo-psicoanalista, ci porta alla consapevolezza del mondo, di noi stessi. La scrittura, tra l’altro, è conturbante. Norman O. Brown è un pensatore a-sistematico, procede per scaglie liriche, per epigrafi orfiche, fa fare l’amore a Freud con Eraclito, a Jung con Esiodo, e soprattutto, con incauta umiltà, si confronta con testi a suo avviso decisivi, da James Joyce a William Blake, da Lévi-Strauss a Hobbes, da Nietzsche ai Vangeli, di modo che il viaggio dentro noi stessi è, infine, evviva, un periplo dentro la grande cultura occidentale. Il libro è bellissimo e inafferrabile, istruttivo perché ci porta sulla soglia del sì, della vita, senza bestiali paternali. “La libertà è poesia, prendersi delle libertà con le parole, infrangere le regole del parlare comune, violare il buon senso. La libertà è violenza”; “Gli schizofrenici soffrono della verità”; “Vedere è vedere oltre”; “Rovesciare il principio della realtà, che è il principio dell’oscurità, il governatore dell’oscurità di questo mondo”; “Noi siamo stati lacerati; in noi non c’è salute. Dobbiamo ammettere le lacerazioni, le lacrime, le rotture, le divisioni; e poi possiamo pregare”. Questi sono alcuni brandelli di un libro magico, magistrale, inspiegabile, che combatte i pensatori organici agli organi di informazione di massa, che – vivaddio – non concede condivise consolazioni. “Almeno nella vita dello spirito, le avventure andrebbero portate fino in fondo”, scrive Norman O. Brown al principio del suo lavoro. Un monito. Da incidere sul cranio di quelli che vogliono insegnarci come si vive, facendo i soldi con le loro avariate pillole di saggezza.

Norman O. Brown, Corpo d’amore, Se, 1991

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