Corsi in inglese, l’università è ostaggio di chi ha paura di innovare

Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso del Politecnico di Milano, che voleva istituire corsi solo in lingua inglese per attirare più studenti da tutto il mondo. Una scelta sbagliata, che rischia di lasciarci indietro

Sono oltre 5 milioni gli studenti universitari iscritti in un paese diverso da quello di origine (fonti OCSE, erano appena 800mila nel 1975). Oltre l’80 per cento di questi studenti internazionali frequenta l’università di un paese del G20, con gli Stati Uniti. Con un modesto 2 per cento, l’Italia ha la stessa quota di Spagna, Austria e Nuova Zelanda. Troppo poco per un paese che vuol riconquistare la frontiera dell’innovazione e del talento.

Una delle cause del ritardo è inevitabilmente causata dalla barriera linguistica: gli studenti sono molto attratti da paesi di lingua inglese o, se provengono da realtà francofone, dalla Francia. Un ostacolo che paesi come Germania, Olanda o Svizzera aggirano offrendo eccellenti programmi di lingua inglese, mentre nel nostro Paese questi sono stati organizzati poco e spesso male. Intendiamoci: la lingua di Dante è stupenda e ha moltissimi estimatori (è la quarta più studiata globalmente), ma nell’istruzione universitaria e post-universitaria l’inglese è cruciale. Se vogliamo che uno studente ungherese o cinese scelga l’Italia, occorre un’offerta formativa anche in inglese. Poi costoro, in molti casi, impareranno anche l’italiano e se ne innamoreranno.

Intendiamoci: la lingua di Dante è stupenda e ha moltissimi estimatori (è la quarta più studiata globalmente), ma nell’istruzione universitaria e post-universitaria l’inglese è cruciale. Se vogliamo che uno studente ungherese o cinese scelga l’Italia, occorre un’offerta formativa anche in inglese.

A tal proposito, appare incomprensibile la decisione della Corte Costituzionale di dichiarare illegittima una norma della legge Gelmini sulle strategie di internazionalizzazione dell’università italiana. In sintesi, la Corte ha stabilito che è incostituzionale che un’università italiana decida di fornire corsi di studio interamente in una lingua diversa dall’italiano perché – sostiene la Consulta – estrometterebbe la lingua ufficiale della Repubblica (art. 6 Cost), imporrebbe la conoscenza di una lingua non italiana per poter studiare e accedere ai corsi di studio e quindi violerebbe il principio dell’eguaglianza (artt. 3 e 34), potrebbe essere lesiva della libertà d’insegnamento poiché sottrarrebbe la modalità con coi un insegnante dovrebbe comunicare con gli studenti (art. 33). Sulla base di questa sentenza, il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso del Politecnico sottolineando quindi l’illegittimità della delibera del 21 maggio 2012 del Senato accademico del Politecnico di Milano, nella parte in cui ha previsto che «interi corsi di studio siano erogati esclusivamente in una lingua diversa dall’italiano».

La vicenda scatenante riguarda il Politecnico di Milano. Un rettore innovatore, Giovanni Azzone, voleva rendere l’ateneo meneghino un polo di attrazione mondiale, tanto che da settembre 2014 lauree magistrali e PhD sarebbero dovuti essere solo in inglese. Migliaia di domande di iscrizione dai vari angoli del pianeta, ma la reazione sindacal-corporativa di 150 docenti (forse più preoccupati per se stessi che per la difesa del sacro idioma nostrano) è stata il classico ricorso al TAR, che a maggio 2013 ha bocciato la decisione del Politecnico. Inutile citare l’incertezza procurata a centinaia di giovani già pronti con la valigia e il biglietto per l’Italia. Azzone si è dunque appellato al Consiglio di Stato, che però ha sollevato la questione di costituzionalità. E, a distanza di qualche anno, è giunta la mazzata della sentenza della Corte. Conseguenze? Costi e duplicazioni insostenibili (lo stesso corso dovrebbe essere fornito anche in italiano, per essere tenuto in inglese), oppure una riduzione significativa dell’offerta formativa in inglese.

Le università italiane, fin dal Medioevo, sono un simbolo di autonomia dal potere. Tutelare la libertà di insegnamento dei singoli atenei, lasciarli competere con le migliori università mondiali per i migliori studenti, è obiettivo da non sacrificare in nome di un insensato sciovinismo linguistico.

La bocciatura del Consiglio di Stato rischia di ripercuotersi su tutto il sistema universitario italiano, con richieste – a questo punto legittime – da parte di docenti di altri atenei italiani che vorranno l’adeguamento del doppio binario linguistico dove presenti corsi di studio solo in inglese. Una reazione a catena che può creare non pochi problemi organizzativi, di budget e offerta formativa. L’adeguamento imposto dalla Consulta sarà sicuramente oggetto di confronto fra i vari rettori italiani (la Cui) e il MIUR, come dichiarato dall’attuale rettore del PoliMi, Ferruccio Resta, al Corriere della Sera, poiché oltre al difficile automatismo, non c’è nessuna volontà di duplicare i corsi, con l’obiettivo di “garantire una formazione di qualità in un contesto anche multietnico per tutti gli studenti”.

Anche in questo caso, c’è bisogno di più Europa. Le università italiane, fin dal Medioevo, sono un simbolo di autonomia dal potere. Tutelare la libertà di insegnamento dei singoli atenei, lasciarli competere con le migliori università mondiali per i migliori studenti, è obiettivo da non sacrificare in nome di un insensato sciovinismo linguistico. L’italiano va promosso nel mondo e studiato meglio a scuola e all’università, ma senza chiudere le frontiere ad altre lingue. Nel contesto dell’Unione Europea, l’inglese è una lingua ufficiale (e lo sarà anche dopo la Brexit, grazie alla presenza dell’Irlanda): sarà forse necessario un intervento in sede europea per aprire definitivamente all’insegnamento in lingua inglese nei corsi universitari e post-universitari. L’italiano si difende facendo dell’Italia un posto vivo, frequentato, ambito, non attraverso una insensata chiusura burocratica mascherata da diritto costituzionale.

* candidati alle elezioni politiche per +Europa con Emma Bonino

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