Ecco perché il #metoo ha fatto a pezzi il garantismo e lo stato di diritto

L'applicazione dello storico "Title IX" sulla base del sistema giuridico della "preponderanza dell'evidenza" da parte delle università americane ha innescato un circolo vizioso che minaccia la libertà di espressione. Ecco dove nasce la caccia alle streghe innescata dal caso Weinstein

Il bello dell’Imperialismo Americano è che grazie a Netflix non dobbiamo più passare le serate a guardare il festival di Sanremo. Il brutto è che siamo esposti a fenomeni che non ci appartengono, finendo spesso per travisarne il senso ed essere travolti culturalmente, con conseguenze pericolose per tutti.

Nel firmare il manifesto “Dissenso Comune”, Cristina Capotondi ha affermato di essere “contro le molestie” ma, allo stesso tempo, di continuare a difendere l’amico Fausto Brizzi in nome del “garantismo”. Cristina forse non lo sa – così come probabilmente non lo sanno quante, tra le firmatarie, condividono la sua posizione votata “al buon senso” – ma, invece che esprimere sostengo “al movimento nato dopo il caso Weinstein”, la Capotondi si è resa protagonista di una clamorosa sconfessione del principio cardine su cui quello stesso movimento si fonda.

L’origine del #metoo non va infatti ricercata nel famoso articolo del New York Times dello scorso ottobre, e nemmeno in quello del giorno successivo uscito sul New Yorker. Il punto di partenza rimanda a molto prima, al 23 giugno del 1972, quando in piena era Nixon, il Congresso degli Stati Uniti approva il cosiddetto “Title IX”, una storica vittoria del movimento femminista della fine degli anni ’60.

Il “Title IX” stabilisce infatti che nessuna persona, a causa del proprio genere può essere esclusa o discriminata in qualsiasi programma scolastico o attività educativa che riceva sovvenzioni federali.

Si tratta di un miglioramento del “Civil Rights Act” del 1964, la pietra miliare che metteva fine – in teoria – ad ogni tipo di segregazione razziale e che però non specificava chiaramente come nella categoria delle discriminazioni fossero da includere anche quelle basate sul sesso.

Come sempre accade negli Stati Uniti, l’idealismo si mosse da subito di pari passo con gli interessi economici e per decenni l’applicazione principale del “Title IX” fu – abbastanza sorprendentemente – l’ambito sportivo. Questo perché lo sport universitario, negli USA, è una cosa serissima: sono le Università che avviano gli atleti al professionismo, spediscono i migliori alle Olimpiadi e, attraverso i campionati universitari, danno vita a un business dal valore di centinaia di milioni di dollari.

Con il “Title IX”, lo sport universitario fu costretto ad aprirsi anche alle atlete-studentesse, che si conquistarono l’accesso ai trattamenti speciali fino ad allora riservati agli atleti-studenti uomini (in un percorso non sempre privo di contraddizioni, ma questa è un’altra storia).

Tuttavia, con l’arrivo del nuovo Millennio l’intera società americana viene scossa dalla grana degli stupri nei campus universitari. Uno dopo l’altro, spuntano decine di episodi di violenza sessuale compiuti da insospettabili studenti, spesso iscritti alle Università più prestigiose (le famose “Ivy League”).

La svolta avviene il 15 marzo del 2011, quando la studentessa di Yale Alexandra Brodsky e altre quindici ragazze vittime di violenza sessuale denunciano la stessa Università proprio sulla base del “Title IX”.

È un fatto clamoroso: per la prima volta si sostiene che l’Università, fallendo nell’offrire alle proprie studentesse un ambiente sicuro, le avrebbe di fatto discriminate e sia quindi responsabile come gli autori materiali dello stupro.

Sull’esempio delle ragazze di Yale, la denuncia sulla base del “Title IX” si diffonde a macchia d’olio, perché a macchia d’olio è diffusa la piaga degli stupri nei campus. E siccome nella lista dei campus coinvolti figurano puntualmente decine di college appartenenti alla Ivy League, il problema sale all’attenzione dei massimi livelli dell’establishment americano: nelle Università dove le rette arrivano a costare 100 mila dollari l’anno studiano i figli e le figlie delle famiglie più prestigiose degli Stati Uniti – le stesse che fanno parte o finanziano i due principali partiti politici – e l’amministrazione-Obama si vede costretta ad intervenire in tutta fretta, riuscendo nella difficile impresa di peggiorare una situazione quasi impossibile da peggiorare.

Si, perché nell’aprile 2011 viene stabilito, tramite una lettera del Department of Education, che tutte le Università che non riusciranno a garantire un’efficace applicazione del “Title IX” riguardo ai casi di molestie sessuali smetteranno immediatamente di ricevere qualunque tipo di sovvenzione federale, inclusi i famosi “federal loans”, ovvero i mutui federali usati da circa due terzi degli studenti americani per pagarsi il college (condannandosi così ad una vita di ansie, ma pure questa è un’altra storia).

L’origine del #metoo non va infatti ricercata nel famoso articolo del New York Times dello scorso ottobre, e nemmeno in quello del giorno successivo uscito sul New Yorker. Il punto di partenza rimanda a molto prima, al 23 giugno del 1972, quando in piena era Nixon, il Congresso degli Stati Uniti approva il cosiddetto “Title IX”, una storica vittoria del movimento femminista della fine degli anni ’60

Se prima le Università, davanti a un’accusa di stupro, potevano sfangarla affidandosi alle autorità competenti, con tempi e modi della giustizia ordinaria, ora sono chiamate ad un controllo preventivo pena l’ingresso nella black list. Ma a questo punto scoppia il panico: entrare nella black list vuol dire perdere gli studenti che richiedono i mutui federali, che vorrebbe dire veder crollare i propri iscritti, che a sua volta significherebbe andare incontro al netto ridimensionamento.

Per questo, i college iniziano ad applicare il “Title IX” sulla base di un particolare sistema giuridico, quello della “preponderance of the evidence”, che nel sistema anglosassone è un criterio alternativo sia a quello del “Beyond a Reasoable Doubt” (“oltre ogni ragionevole dubbio”) usato nei casi penali, sia a quello del “clear and convicing evidence” (“chiara e convincente prova”) usato nella maggior parte dei processi civili.

Si tratta di una differenza che rivoluzionerà culturalmente l’attuale decennio: da questo momento, infatti, chi viene accusato di aver commesso uno stupro in un campus subisce due procedimenti, uno a cura della Giustizia ordinaria, basato sul criterio della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, un altro interno, gestito dal college, basato sul concetto di prova “preponderante”, la cui interpretazione è lasciata alla discrezione del college stesso.

Mentre i dati dello U.S. Department of Justice parlano di 6,1 casi di violenze sessuali ogni mille studenti, dal 2011 in poi le denunce si contano nell’ordine di centinaia; denunce che, tuttavia, vengono sempre inoltrate presso il college e in misura assai minore presso le autorità giudiziarie, dove l’esito delle indagini è molto più incerto: sono parecchie le Università citate in giudizio da parte di studenti maschi sbattuti fuori perché condannati per violenza sessuale dalla giustizia del college ma scagionati completamente da quella ufficiale (eccone un esempio).

E non c’è solo il tema della preponderanza della prova.

In questo clima sovraeccitato, per evitare preventivamente ogni grana, le Università si inventano regolamenti come quello della Northwestern University in cui si vietano esplicitamente rapporti sessuali tra due persone adulte “in condizioni di potere differente”.

Si sostiene, cioè, che un rapporto sessuale tra due individui che occupano posizioni diversi all’interno di una qualunque scala di differenziazione sociale (in questo caso professore-studentessa) sia da vietarsi a prescindere, perché il consenso della persona subalterna sarebbe determinato non da una libera scelta ma influenzato dai rapporti di potere sbilanciati.

È sulla base di questa dottrina che il capitano della squadra di basket di Yale, Jack Montague, viene espulso dall’Università nel 2014 a seguito di un’accusa di violenza sessuale mossagli dalla ex fidanzata. Un anno dopo la fine della loro relazione, la donna denuncia ai vertici dell’Università – ma non alla polizia – che il suo consenso non fosse “libero” ma influenzato dal prestigioso ruolo che Montague ricopriva nell’ambiente universitario. Esattamente quanto accadrà a James Franco due anni più tardi, quando una sua ex affermerà, un anno dopo i fatti, di aver acconsentito a un rapporto orale nell’auto dell’attore solo sulla base della sua fama, gridando per questo alla molestia sessuale.

Non tutto il mondo accademico, tuttavia, si rivela disponibile ad accettare una svolta che puzza di caccia alle streghe lontano un miglio.

Nel 2015, i professori di Harvard Jacob Gersen e Jeannie Suk scrivono sul California Law Review dell’Università di Berkley come l’applicazione del “Title IX” basata sulla preponderanza della prova abbia di fatto sancito la nascita di “un apparato burocratico” che “vigila e controlla la sessualità di liberi cittadini” come una specie di Grande Fratello; lo stesso anno, Laura Kipnis docente della stessa Northwestern University pubblica questo saggio, affermando il diritto delle donne maggiorenni del XXI secolo a scegliere liberamente con chi avere rapporti sessuali, senza burocrazie o limitazioni di sorta.

Il nuovo pseudo-femminismo da campus universitario, secondo la Kipnis, ridurrebbe le donne al ruolo di “bambine indifese”, bisognose di altri uomini per scrivere regolamenti a loro tutela, invece che considerarle esseri umani dotate di libero arbitrio.

Per la Kipnis, se quel pasticcione di Obama avesse voluto fare qualcosa per risolvere la piaga degli stupri nei campus avrebbe potuto stringere i controlli – o perché’ no? bandire – le “frats”, le associazioni studentesche maschili coinvolte ripetutamente in fatti di violenza sessuali. Ma toccare le “frats” avrebbe voluto dire toccare delle strutture sociali potentissime, alla base del sistema lobbistico con cui è organizzato il potere negli Stati Uniti (la frat di un college come Harvard, per esempio, è composta da simpatici cazzoni alla Steve di Beverly Hills 90210, che però, tra dieci o vent’anni siederanno tutti nei cda più importanti del pianeta: entrarci equivale più o meno a un’assicurazione sulla vita).

Obama avrebbe quindi optato per la solita soluzione cerchio-bottista, prendendo un provvedimento per risolvere l’emergenza, ma scaricando tutto sulle singole Università, tramite la minaccia di interrompere i finanziamenti (un po’ quanto fatto con le Primavere arabe: io faccio fuori il dittatore, poi vedetevela voi…) con effetti devastanti per la libertà individuale.

Con l’elezione di Donald Trump la situazione peggiora ulteriormente: ogni rigagnolo di dibattito pubblico si inquina di odio ideologico avvelenando il clima fino all’esasperazione.

E così, mentre la Kipnis subisce a sua volta un procedimento per violazione di “Title IX” avendo messo in discussione il “Title IX”, nei campus universitari la situazione sfugge di mano.

Nel maggio 2017, gli studenti del Reed College denunciano un Professore per proselitismo a favore del suprematismo bianco. È successo che il docente ha mostrato in classe un vecchio sketch di Steve Martin vestito da faraone al Saturday Night Life per analizzarne il linguaggio comico, e gli studenti ci hanno visto un tentativo di discriminare e ridicolizzare i costumi del popolo egiziano.

Nel frattempo, all’Evergreen State College, il docente Bret Weinstein si rifiuta di aderire alla protesta indetta dagli studenti liberal del college che, per una giornata, vietano l’accesso a studenti e professori bianchi “per riflettere sui loro privilegi”. Weinstein contesta la folle idea di voler combattere il razzismo con altro razzismo, e gli studenti reagiscono minacciandolo e denunciandolo per discriminazione. L’Università decide di terminare il suo rapporto con il docente, versandogli una liquidazione da mezzo milione di dollari.

Due casi fra i tanti, che sembrano fake news e che invece sono riportati dal liberalissimo Newsweek; due casi che fanno capire come l’America sia precipitata dentro un remake da incubo del “Signore delle Mosche”, con i college diventati territorio esclusivo dei cosiddetti “snowflakes”, studenti e studentesse ipersensibili incapaci di avere a che fare con qualunque tipo di pensiero critico, continuamente bisognosi di “safe space”.

Obama avrebbe quindi optato per la solita soluzione cerchio-bottista, prendendo un provvedimento per risolvere l’emergenza, ma scaricando tutto sulle singole Università, tramite la minaccia di interrompere i finanziamenti (un po’ quanto fatto con le Primavere arabe: io faccio fuori il dittatore, poi vedetevela voi…) con effetti devastanti per la libertà individuale

Non a caso, la scorsa estate, la rivista Commentary, voce ufficiale dell’American Jewish Committee, intitola il numero di luglio e agosto “the threat to free speech” – “la minaccia alla libertà di espressione”, suscitando ampio dibattito in tutti i settori dell’opinione pubblica del Paese.

È in questo clima lacerato e ideologico che lo scorso ottobre il New York Times e il New Yorker si occupano del produttore cinematografico Harvey Weinstein, che tutta New York City sa essere una specie di psicopatico. Basta andare durante il weekend al brunch del Balthazar – noto ristorante di Soho – per vederlo fumare il sigaro nonostante il divieto, rovinando il pasto a tutta la sala, e farsi così un’idea del tipo.

Ma le sacrosante accuse contro un uomo che ha fatto del ricatto e della violenza il proprio marchio di fabbrica diventano il pretesto perché il principio della preponderanza della prova venga contrabbandato ben oltre i confini delle “safe zones” care agli “snowflakes” dei college americani. Sotto le spoglie del movimento #metoo, il principio si estende all’ambito cinematografico, poi all’intera società civile, e infine si abbatte come un uragano a forza 5 su un resto del mondo completamente impreparato, che del criterio della “preponderance of evidence” contrapposta alla “clear and convincing evidence” non sa assolutamente nulla.

Altro che “molestie contro avance”, come ingenuamente crede la Deneuve. Per capire come funzionano le cose nel mondo #metoo basta pensare a Woody Allen, assolto non una ma due volte eppure trascinato ugualmente nell’infamia.

Perché oggi quell’accusa, smentita dai giudici, è ritenuta sufficiente ad interrompergli la carriera e prima no? Perché attrici e attori che hanno lavorato con lui chiedono scusa pubblicamente adesso e prima no? Perché il giudizio di un Tribunale ora non conta nulla e prima si?

Perché prima vigevano le regole dello Stato di Diritto. Poi, con l’arrivo del #metoo, è entrata in vigore la legge del sospetto e dello sputtanamento continuo sulla base del venticello della calunnia, proprio la stessa che dal 2011 è in vigore nei college americani.

Associare il garantismo, come fa la Capotondi, al movimento #metoo è quindi impossibile, perché i due concetti sono basati su concetti opposti e inconciliabili.

L’uno – il garantismo – è il motore della battaglia per i diritti delle persone – di tutte le persone – che portarono all’approvazione di un testo fondamentale per la Storia Umana come il Civil Rights.

L’altro, il #metoo, trasforma la società in un enorme college dove mentre per i diritti delle donne reali non cambia assolutamente nulla, l’unico risultato tangibile (insieme alla spettacolare candidatura della “Iena Dino” al Parlamento Italiano per il Movimento Cinque Stelle) è l’avere messo a punto un’arma letale buona per cercare di far fuori una persona sgradita – si tratti di un giocatore di basket, un professore universitario o del più grande comico di tutti i tempi.

O anche di una donna stessa: che beffarda ironia vedere Rose McGowan, musa di Ronan Farrow e prima accusatrice di Weinstein, “metooizzata” da Andi Dier, transessuale che a New York l’ha accusata di insultare le donne transgender e di non avere idea di cosa voglia dire essere molestate davvero, sfiorando l’aggressione fisica.

Nel frattempo, Donald Trump governa senza una vera opposizione e – pur facendo di tutto per fottere i ceti più poveri a vantaggio di quelli più ricchi – continua inesorabilmente ad aumentare il suo consenso.

Well done, America.

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