Fascisti contro Comunisti? Sciocchezze, nelle nostre strade si svolge una guerra tra giovani impoveriti

La politica è solo un alibi. La verità è che per strada si sta svolgendo uno scontro (inevitabile) tra giovani, trenta/quarantenni, senza prospettive. Che si attaccano a relitti di ideologie, con la complicità di classi dirigenti antiche. E inutili

Il problema dell’Italia sono i suoi giovani. O, meglio, quello che subiscono, nel silenzio complice di tanti. Altro che ritorno di fascismo o comunismo! Chi l’avrebbe detto, solo pochi mesi fa, che la campagna elettorale sarebbe infatti stata dominata da temi da Anni di piombo o Repubblica di Weimar; con l’esplosione di violenze politiche varie e varie rappresaglie, scontri fra ideologie vecchie e (credevamo) sepolte. Armi di distrazione di massa. Non si parla più di temi – tasse, politiche pubbliche, governance, Europa -, e soprattutto di loro: dei ragazzi. Ridotti a problema di ordine pubblico. Mentre il dibattito piega verso un linguaggio novecentesco, fascismi del Terzo Millennio e “antifascismo militante” usato come foglia di fico per gruppuscoli di sinistra radicale che, smarriti Marx e perfino Toni Negri, si dimenano per dare un senso ideologico alla loro vera natura fisiologica: ribellismo giovanile. Perché i giovani sono impauriti, disoccupati e arrabbiati: e hanno ragione.

Ci ostiniamo, infatti, a vedere il dito della “violenza politica” e non la luna delle estreme e inaccettabili condizioni materiali di deprivazione in cui l’Italia ha ridotto i suoi figli. Straparliamo del “ritorno degli opposti estremismi” e non analizziamo le cause della marginalizzazione generazionale che abbiamo prodotto: e non c’entra nulla “il crudele capitalismo”. C’entrano le scelte che abbiamo compiuto, quelle che hanno compiuto i nostri padri, che hanno prodotto un’economia in sofferenza, ma caparbiamente ostile al ricambio, al merito, alla mobilità sociale. Non vedo all’orizzonte la violenza rivoluzionaria di seguaci di Marx o Julius Evola, infatti, quanto piuttosto masse di giovani proletari senza concrete possibilità di farcela – a destra -, e rampolli rancorosi di una borghesia in caduta libera, a sinistra.

Non vedo all’orizzonte la violenza rivoluzionaria di seguaci di Marx o Julius Evola, infatti, quanto piuttosto masse di giovani proletari senza concrete possibilità di farcela – a destra -, e rampolli rancorosi di una borghesia in caduta libera, a sinistra

Perché mentre i proletari stanno a destra, oramai, a sinistra c’è una “classe disagiata”, come l’ha definita Raffaele Alberto Ventura, di giovani che hanno studiato per diventare intellettuali, professori, giornalisti, le cui aspirazioni si scontrano con un mercato del lavoro intellettuale che li taglia fuori e il cui risentimento non è meno giustificato dei loro coetanei “neri”.

Viviamo un’economia senza pane e senza rose. Né pane per i proletari, né rose per i figli degli insegnanti, precarizzati da un sistema pubblico in ritirata. È una crisi sociale, sicuramente. Ma selettiva. L’economia cresce, ma non ridistribuisce, e all’orizzonte non si delinea una nuova frattura di classe, ma generazionale. I giovani – di destra e sinistra, di origine proletaria o piccolo borghese, poco importa -, sono le vittime principali. Le ideologie politiche non c’entrano o c’entrano molto poco, sono piuttosto l’epifenomeno di altro. Il demografo Gaston Bouthoul ha spiegato brillantemente come la presenza di masse di giovani inoccupati portino a un aumento della violenza politica, così com’è la stessa crisi economica, secondo Ronald Inglehart, a favorire il successo della polarizzazione ideologica, che fa da cassa di risonanza alla frustrazione generazionale. Gli anziani difficilmente si picchiano per le idee e preferiscono opzioni centriste che puntino ad una composizione con le posizioni altrui, piuttosto che ad una sconfitta del nemico, da mandare ad Auschwitz o in gulag sovietici. I dati parlano chiaro.

Il demografo Gaston Bouthoul ha spiegato brillantemente come la presenza di masse di giovani inoccupati portino a un aumento della violenza politica, così com’è la stessa crisi economica, secondo Ronald Inglehart, a favorire il successo della polarizzazione ideologica, che fa da cassa di risonanza alla frustrazione generazionale

Quasi un giovane su cinque in Italia, nella fascia tra 15 e 24 anni, non ha né cerca un lavoro, né è impegnato in un percorso di studi o di formazione. Si tratta dei cosiddetti Neet e il nostro Paese vanta uno dei tassi più alti d’Europa: 19,9% contro una media nel Continente dell’11,5%. La disoccupazione giovanile, invece, è al 35%, con punte di 40% nel Mezzogiorno d’Italia. In questo scenario da incubo, ecco che i più arrabbiati scelgono le opzioni più radicali: la parodia di marxismo e anarchismo e il fascismo squadrista più becero. La maggioranza dei giovani, invece, si rifugia dell’astensione o nel risentimento.

E, non a caso, vota i partiti antisistema, che sublimano la violenza politica nella dimensione verbale ed espressiva dei vaffa e delle ruspe. Approcci comunque semplificatori che si basano sul manicheismo, sulla riduzione cioè della complessità sociale a un unico nemico, che può essere il Capitale, le banche, lo straniero o l’Europa. E che nel riduzionismo fascista, che alligna all’orizzonte, è in effetti il complotto capitalista/eurocratico/ebreo/migrazionista. Ma queste cattive idee, come sempre, nascono altrove: dall’economia. Con lavoro vero, rossi e neri, smetterebbero di giocare alla guerra. E più continuano a farsi la guerra ora, più la maggioranza silenziosa degli anziani ha buon gioco a tenerli ai margini.

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