Neppure una seconda disfatta elettorale potrebbe portare all’uscita di scena di Matteo Renzi, anzi. Premessa: il fatto che il segretario non abbia messo questa opzione sul piatto nelle ultime settimane non rappresenta certo l’indizio principale di questa tesi, dato che la famosa “personalizzazione” della campagna referendaria è stata una delle cause – per alcuni la principale – della sconfitta del 4 dicembre 2016. Ma chi si aspetta che l’eventuale seconda batosta, poco più di un anno dopo, possa trasformarsi nella pietra tombale sulla carriera politica di Renzi, rischia di rimanere – un’altra volta – deluso.
Intanto delimitiamo, ancora una volta, i confini della disfatta. La tempesta perfetta sarebbe la seguente: Pd al minimo storico intorno al 20-22%, la prospettiva di diventare primo gruppo parlamentare a discapito del Cinque Stelle compromessa nonostante il contributo delle liste satellite, centrodestra a ridosso della maggioranza sufficiente per formare un governo. E magari pure un risultato decente di Leu (sopra il 7%). Se questo scenario, al momento del tutto ipotetico, dovesse avverarsi, per i dem sarebbe il Big Bang.
Un Big Bang dal quale, paradossalmente, Renzi e i renziani non escludono di uscire addirittura rafforzati. In che senso? Ce lo spiega un uomo-macchina del Nazareno. “Poniamo che, come dicono alcuni sondaggi, il Pd finisca davvero poco sopra il 20%. Staremmo parlando di un consenso quasi personale nei confronti di Matteo. Numeri che, così per dire, i Berlusconi, i Salvini, le Meloni, i Grasso, per non parlare di D’Alema e Bersani, si sognano. Vi pare che davanti a un risultato così quello che deve ritirarsi a vita privata sia Renzi?”.
No, in effetti non lo farà. Lo si è capito dalle modalità di composizione delle liste e dal (grande) gruppo di fedelissimi a cui ha garantito un posto a Montecitorio e, soprattutto, a Palazzo Madama, dove costruirà il suo fortino. A che fine? “Mai come in questa occasione sul tavolo c’è, davvero, l’ipotesi del colpo di mano. Se la sera del 4 marzo il Pd finirà davvero al minimo storico, il giorno dopo partirà l’assalto alla segreteria, non c’è alcun dubbio. A quel punto il vero colpo del cavallo (come i renziani più puri chiamano il loro capo, ndr) sarebbe quello di dire: arrivederci e buona fortuna. In fondo Macron con En Marche ha preso il 24% al primo turno in Francia ed ora fa il padrone dell’Europa”.
Poniamo che, come dicono alcuni sondaggi, il Pd finisca davvero poco sopra il 20%. Staremmo parlando di un consenso quasi personale nei confronti di Matteo. Numeri che, così per dire, i Berlusconi, i Salvini, le Meloni, i Grasso, per non parlare di D’Alema e Bersani, si sognano. Vi pare che davanti a un risultato così quello che deve ritirarsi a vita privata sia Renzi?
Le prospettive che si aprirebbero, in questo caso, potrebbero sconvolgere il quadro politico italiano, specialmente nel centrosinistra. Se davvero Renzi decidesse di dare vita ad una nuova formazione politica, come si ventila dal 2012, chi lo seguirà? Difficile a dirsi perché la situazione è molto meno scontata di quanto possa sembrare. Forse la domanda giusta da porsi è: chi non lo seguirebbe? Già perché chiunque voglia prendere in mano un Pd senza Renzi rischierebbe di rimanere con un pugno di mosche in mano.
Si è scritto molto in questi giorni di possibili congiure già in atto contro il segretario. Una di queste vedrebbe schierati, in un’inedita formazione, alcuni dei maggiori esponenti “romani” del Pd, con qualche new entry: da Veltroni a Gentiloni, da Calenda a Zingaretti, con il beneplacito di Minniti e Franceschini. Ammettendo che questa sia una prospettiva credibile, il problema è capire come possano pensare di andare ad affrontare questa “guerra”. Con quali truppe? Con quali strutture? Le liste disegnate da Renzi hanno lasciato, non solo alla minoranza, ma anche alle varie componenti della maggioranza che non siano la sua, solo le briciole. Difficile pensare alla ricostruzione di un progetto politico maggioritario se non si può neppure contare su un numero consistente di parlamentari. E poi c’è la situazione economico-organizzativa in cui versa il Pd oggi: un partito indebitato fino al collo, con tutto il personale dipendente in cassa integrazione e con prospettive tutt’altro che esaltanti, specie se svuotato dei contributi che mensilmente i parlamentari versano nelle casse della tesoreria. Una bad company che non fa gola a nessuno.
E qui entrerebbe in gioco la seconda ipotesi, che per forza di cose esclude la prima: un assalto da parte dei fuoriusciti, gli ex scissionisti che provano a riprendersi ciò che hanno lasciato. Forti di un risultato discreto (difficile sperare in qualcosa di meglio) alle urne, D’Alema, Bersani e gli altri, con la sponda di Orlando e Cuperlo, potrebbero provare a rientrare dalla porta principale e ricominciare a lavorare per un Pd-meno-Renzi. Come abbiamo già avuto modo di scrivere, però, questa ipotesi può prendere corpo solo se una delle poche figure che ragionevolmente possono uscire vincenti dalla urne del 4 marzo, quella del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, decidesse di mettersi a disposizione. Cosa che non ha mai fatto e che forse, a maggior ragione, non farebbe nel caso in cui la prospettiva fosse quella di un ritorno (con equilibri di forza ribaltati) ad un binomio Ds-Margherita.
Quel che sembra sempre più probabile, dunque, è che, a prescindere dal risultato delle elezioni, sarà ancora Renzi (anche indebolito) a dare le carte nel centrosinistra. E gli altri, anche solo per puro spirito di sopravvivenza, finiranno per accodarsi.