L’alternanza scuola – lavoro ha vinto (e basta guardare i programmi elettorali per capirlo)

Nessun partito, anche quelli più critici col governo Renzi e la Buona Scuola, vuole cancellarla. Segno di una sperimentazione di cui si è compresa l’utilità. Una buona notizia, in un Paese che sulla scuola continua a non voler investire

Gli ultimi anni hanno insegnato alla politica un’amara lezione: la scuola non porta consenso. Non porta consenso assumere – troppo intricata la situazione storica del precariato per non scontentare nessuno, troppo grande una struttura con 40.000 plessi per poter fare assunzioni centralizzate senza creare malcontento.

Né pare porti consenso provare a offrire alle famiglie una scuola di maggior qualità: la valutazione degli insegnanti – in qualunque modo la si proponga – è ancora vista come una “sovrastruttura aziendalista” e come un ostacolo alla libertà di insegnamento. Su questo tema la voce dei sindacati scolastici ha sovrastato di molto quella delle famiglie.

Non è un caso che, in questa campagna elettorale, nessun partito abbia posto l’istruzione al centro delle proprie proposte. Tasse pensioni e migranti sovrastano ogni altro tema, e anche se tutti riconoscono che il futuro del lavoro imporrà un massiccio investimento in formazione, pochi si sono presi la briga di circostanziare questo bisogno in proposte concrete. Tantomeno di farne una battaglia. La scuola non crea consenso, meglio non parlarne troppo.

Bisogna spulciare i programmi dei vari partiti sui siti per trovarne tracce più concrete. E per riconoscere un risultato che chi si è cimentato nel Governo dell’istruzione negli ultimi anni deve rivendicare con orgoglio: è stato spostato di mille passi in avanti il dibattito sul rapporto tra scuola e lavoro. Anche i più critici oppositori della Buona Scuola infatti – dal Cinque Stelle, che ne propone una “parziale abrogazione” a Liberi e Uguali, che sostiene vada “cancellata” – quando si parla di alternanza scuola lavoro frenano la polemica: usano i distinguo (obbligatoria o facoltativa, licei o tecnici ecc), ma non puntano più a demolire l’istituto in sé.

Anche i più critici oppositori della Buona Scuola infatti – dal Cinque Stelle, che ne propone una “parziale abrogazione” a Liberi e Uguali, che sostiene vada “cancellata” – quando si parla di alternanza scuola lavoro frenano la polemica: usano i distinguo (obbligatoria o facoltativa, licei o tecnici ecc), ma non puntano più a demolire l’istituto in sé

Dovremmo rallegrarcene tutti. Solo pochi anni fa l’idea che un luogo di lavoro potesse diventare la “prosecuzione della scuola con altri mezzi” era estranea a quasi tutte le culture politiche. Alla destra classica, che dalla riforma Gentile in avanti aveva legittimato una separazione netta tra le discipline teoriche e quelle pratiche. Alla sinistra storica, per cui il lavoro è sfruttamento e la scuola è un mezzo per superarlo. Alla borghesia emergente della seconda parte del ‘900, per cui l’istruzione era un modo per tenere lontani i figli dal fardello del lavoro e della fatica. Per quasi tutti, per lunghi decenni di storia (unica eccezione una parte del pensiero cattolico), scuola e lavoro erano mondi separati cronologicamente e culturalmente. E tali dovevano restare.

Non è stato il Governo Renzi a inventare l’alternanza scuola lavoro: le sue radici si ritrovano nell’operato di un Ministro di segno opposto, Letizia Moratti nei primi anni del 2000. Ma è stato con la Buona Scuola che si è avuto lo sprint decisivo: obbligatorietà, estensione ai licei e finanziamento massiccio. Una presa di posizione forte, specie da un Governo di centrosinistra: stare nei luoghi del lavoro oltre che in classe è importante per la crescita dei nostri ragazzi. Anche di quelli che andranno all’università. Anche qui le proteste sono state accese: dalle penne dolenti di alcuni intellettuali, alle grottesche manifestazioni degli studenti in tuta da operaio, abbiamo assistito a tre anni di rigurgiti.

Ma si è andato avanti. E oggi ci troviamo un milione e mezzo (si, un milione e mezzo) di ragazzi dentro percorsi di alternanza. Alcuni eccellenti, altri da migliorare, altri ancora da riscrivere da capo: ma nessuno, nemmeno i partiti più ostili all’attuale Governo, si sono spinti a proporre il colpo di spugna. L’alternanza scuola lavoro è diventato un pezzo dell’offerta formativa della scuola italiana, e in un contesto di disoccupazione giovanile ancora altissima e di disallineamento tra educazione e mondo del lavoro si tratta di un risultato da difendere, qualunque sia il colore del prossimo governo.

C’è da chiedersi perché sia andata così diversamente dagli altri grandi dibattiti sulla scuola: precariato, valutazione docenti, preside sceriffo… dove la polemica è stata più calda, e i passi indietro più decisi.

La risposta è, forse, più semplice del previsto, e potrebbe dare spunti interessanti ai nostri politici: l’alternanza (così come il piano sulla scuola digitale) non è stata messa in discussione alla radice perché è un modo di fare policy scolastica interamente costruito intorno al futuro degli studenti, e non al presente degli insegnanti. In una scuola ancora largamente intesa con l’insegnante al centro, il dibattito sull’alternanza è un dibattito sulle competenze del futuro, sul dialogo tra scuola e territorio, tra sapere e saper fare, tra produzione e cultura. È un discorso pubblico che pone al centro la costruzione di futuro, e non il mantenimento di posizioni passate. Esplora spazi nuovi, non rimpiange quelli passati. Pone una istituzione ad alto rischio di autoreferenzialità come la scuola fuori dal suo spazio di confort, e le impone di essere attiva, aperta e capace di progettare.

Non sarebbe male per il dibattito preelettorale confrontarsi di più su temi del genere, e di meno sul lancio di sanpietrini retorici.

*Promotore di Al Lavoro e responsabile segreteria tecnica del Miur quando si decise l’obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro

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