Lupus in fabbrica: è partita la corsa dei partiti per conquistare il voto operaio

Improvvisamente nella campagna elettorale Lega, Movimento 5 stelle e Fratelli d’Italia accorrono alle fabbriche e assumono la difesa del lavoro operaio. È l’ultimo episodio di una storia che inizia nei primi anni Novanta, ma è anche una “vendita allo scoperto”, che può diventare un boomerang

Poco dopo l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti diverse analisi avevano dato riscontro ai sentori già espressi mesi prima dai più autorevoli labor journalist. Molti iscritti al sindacato avevano votato per il tycoon. Il verdetto emergeva dagli exit polls, nello sconcerto delle unions di diversi settori dagli insegnanti agli steelworkers, fino all’automotive.

La penetrazione del populismo destrorso nell’elettorato tradizionalmente incline al voto opposto era già stata osservata in Europa. Uno studio dell’università di Berlino condotto tra il 2003 e il 2004 concludeva che il 34% dei lavoratori a bassa qualifica iscritti al sindacato aveva un orientamento di estrema destra, contro il 18% dei non iscritti.

Alla ricerca di segnali del fenomeno nel vecchio continente si può risalire sino a primi anni Novanta. Per l’Italia, come ricorda Michele Corsi, nel 1996 un’inchiesta commissionata dalla CGIL Lombardia indicava come la Lega fosse il primo partito tra gli operai, col 33% (Rifondazione comunista era al 10,4%).

Se questo è il trend non stupiscono i dati dei sondaggi più recenti, da quello di Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera, a quello di Antonio Noto per Il Fatto Quotidiano, concordi nell’assegnare al Movimento 5 Stelle e Lega la maggioranza del voto operaio.

Chi si sia chiesto quindi come mai nel giro di una settimana i leader di Lega, Cinquestelle e Fratelli d’Italia abbiano intrapreso una corsa alla fabbriche, non solo metaforica, trova in questi dati una risposta. La strategia è la medesima: dimostrare ai lavoratori di spendersi attivamente per la difesa del loro lavoro, contrapposizione con il governo (a il sindacato) , provare a spostare qualche voto, e, mal che vada, consolidare il prprio elettorato.

Così ecco che Matteo Salvini accusa il Ministero dello Sviluppo di non aver fornito risposta alla interrogazione della lega sul caso Ideal Stardard (interrogazione inesistente secondo il Ministro Calenda). Di Battista va oltre le telecamere: si presenta davanti ai cancelli dello stabilimento Embraco di Riva di Chieri (annunciati 500 licenziamenti) e attacca il governo incapace di affrontare le crisi industriali. Ultima in ordine di tempo, Giorgia Meloni è la più ambiziosa: visita uno stabilimento Amazon e posta un video su Facebook dall’interno, dove assicura che grazie a una sua chiacchierata con l’azienda il pericolo dell’applicazione del famigerato braccialetto elettronico è scongiurato.

Difficile provare a spiegare come mai il sindacato abbia progressivamente perso la presa sull’elettorato tradizionale della sinistra, tanto da lasciare alla politica cosiddetta populista e sovranista la difesa del lavoro lavorato. Fatto sta che, tenuto conto della tradizione sindacale che non individua una corrispondente rappresentanza partitica, e tenuto conto della rottura ormai definitiva della “cinghia di trasmissione” tra Cgil e centrosinistra, il sindacato sembra una volta di più messo alla corde.

Oltreoceano le unions non stanno meglio, anzi. Lì il partito repubblicano avrebbe in mente un disegno per ridimensionare il potere di influenza dei sindacati che risponsde al nome di Right to Work, leggi che eliminano il requisito che i lavoratori, anche se non iscritti, paghino contributi ai sindacati. In merito, a maggio 2017 l’attivista repubblicano anti tasse Grover Norquist aveva dichiarato che il GOP potrebbe vincere anche nel 2020 se tali misure continuassero ad essere adottate da altri Stati. Uno studio appena pubblicato dal National Bureau of Economic Research conferma che Nordquist potrebbe avere ragione: negli stati dove è stato introdotto il Right to work, in media il voto democratico è calato del 3,5% dall’introduzione, con effetti anche sulla affluenza. Causa i minori fondi a disposizione per le campagne di fund raising a favore dei democrats e per il voto. Nel vecchio come nel nuovo continente quindi la situazione è simile: il sindacato si trova di fronte a un trade off tra tra mobilitazione politica e reclutamento di nuovi iscritti nei posti di lavoro.

Di fronte a una minaccia di tali dimensioni, i sindacati italiani possono farsi coraggio: la politica ha al più sfidato il sindacato con l’ipotesi di un salario minimo legale (ipotesi che viene ora contrastata a livello confederale) e il recente tentativo della politica populista di prendere la scena della fabbrica appare ben poca cosa. Anzi, a ben vedere, offre anche l’opportunità al sindacato per cominciare e ricostruire una credibilità corrosa. Almeno tra i lavoratori della fabbrica. Perché se l’elettore generico può scambiare le comparsata negli stabilimenti con efficacia dell’azione politica, i lavoratori di quegli stabilimenti possono comprendere come si tratti in realtà di vendite elettorali allo scoperto, che non possono concretizzarsi in risultati, semplicemente perché la politica non ha i mezzi per intervenire nelle realtà produttive, se non a livello amministrativo (ministeriale o territoriale). Ciò a patto che il sindacato sappia comunicare le sue attività di contrattazione e di tutela nei luoghi di lavoro, anche in contrapposizione ai tentativi di strumentalizzare le vicende aziendali, ma senza rincorrere il consenso di brevissimo periodo con gli stessi mezzi frettolosi della politica. Pena continuare ad essere percepito anch’esso come un effimero gioco di potere, anziché un organismo vitale della rappresentanza, che dura qualcosa di più di un giro di campagna elettorale.

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