Bere birra è un po’ come fare a pugni: all’inizio sei preso bene e sicuro che vincerai tu, verso la metà sei un po’ intontito ma ci credi ancora, alla fine sei al tappeto e non ti ricordi nulla e il giorno dopo prometti a te stesso di non farlo più e poi ricominci subito ad allenarti.
Anche scrivere libri è un po’ come fare pugilato, ma questo lo spieghiamo meglio durante l’intervista. Dopo aver parlato di editoria americana con Giulio D’Antona, di criminalità organizzata con Simone Sarasso, di sciabattamenti del Novecento con Marco Rossari, di agenzie e riviste con Pastrengo, di racconti e Messico con Alessandro Raveggi, di Topolino e incomprensioni con Tito Faraci, di amore e antichità con Giorgio Fontana, di giochi di ruolo e bottiglie che esplodono con Vanni Santoni, di mummie e specifici letterari con Andrea Morstabilini, di messaggini e intrattenimento con Federico Baccomo, di praticamente qualsiasi cosa con la cittadinanza di Ivrea, di lavoro per il lavoro e di Giancarlo Magalli con Daniele Zito, di categorie abominevoli con Fabio Geda e di ellissi e maialini premio con Francesca Manfredi, oggi è il turno di Alessandro Mari, autore, traduttore, boxeur e barba molto curata, in libreria da qualche mese con Cronaca di lei (Feltrinelli), la storia di un pugile, Milo, di una modella senza nome, “lei”, della sorella e manager di Milo, Irene e di tanti dietro le quinte del mondo della boxe, ma anche del mondo della vita.
Per la location ringraziamo l’affitto che pago ai miei padroni di casa e per le birre ringraziamo il Carrefour Express qui sotto casa mia, che ha pure le Fischer. Per le foto, invece, il merito è come sempre di Alberto Cocchi, il fotografo che funziona con e senza alcol.
Prima birra
La prima cosa che mi ha colpito, di questo libro, è che mancano completamente gli spiegoni. Tutto show, niente tell. Come hai fatto? Come funziona?
In generale, il punto è che ormai non apprezzo più i libri che mi raccontano qualcosa tentando di farmela capire. Quei romanzi che didascalizzano le cose con l’intento di accendere una luce dove c’è qualcosa di oscuro. Non è roba che mi interessa. Al contrario, c’è un tipo di letteratura a cui presto molta più attenzione – uno su tutti Cormac McCarthy – che ha avuto, nel secondo novecento, la qualità di dirci che, per esempio, se tu lettore vuoi vedere, vuoi capire la radice del male, non bisogna spiegarti che è male. Bisogna al contrario metterlo in scena e lasciare al lettore la responsabilità di indagare. Chiamarlo in causa.
Per quanto riguarda il mio romanzo, volevo che mettesse in scena qualcosa di poco prevedibile, la storia di una modella e di un pugile. Se ci si immagina questo libro come un ring, io ho voluto far vedere ciò che accade nella penombra attorno al ring, senza un commentatore che ti spiega tutto. E c’è una ragione molto specifica: il libro racconta due corpi che sono diventati mestieri. Corpi che funzionano come mestieri, mestieri fatti di corpo. E spesso, per pregiudizio, si pensa che dentro ai corpi non ci sia vita interiore, ma solo cinetica. Al contrario, io volevo creare nel lettore l’esigenza di sospettare che dentro quei corpi ci sia qualcosa.
I tre elementi fondamentali di ogni narrazione sono le azioni/descrizioni, i dialoghi e i pensieri riferiti. Se provi a togliere i pensieri riferiti, rimangono solo gli altri due. E i due protagonisti del romanzo sono quasi insondati dal narratore. Se lei entra in una stanza e sorride, io non scriverò mai “lei sorride perché è contenta”. Lo si deve capire da ciò che è accaduto prima e da ciò che accadrà dopo. Funziona un po’ come con gli sconosciuti: se mi siedo a un bar con un tizio che non conosco, al di là di quello che mi dice, a me interessa capire il non detto, il suo linguaggio del corpo, un tic, un gesto. Sono quelli i segnali che mi fanno venire voglia di berci un altro caffè. Mi affascinano le cose nascoste.
Se togli le didascalie, cambi il rapporto con il lettore. Qual è il dialogo più costruttivo che un autore può imbastire con chi lo legge?
Il trucco è questo: togliere di mezzo la radice di un’espressione affinché qualcuno la ricostruisca. Una delle mie più grandi paure è la pigrizia: in un mondo di social network, si tende a costruirsi il pregiudizio di conoscere le persone solo attraverso la loro attività online, ma in realtà non è affatto così, e la cosa più demoralizzante per me è che, in questo modo, ci viene un po’ meno la voglia di conoscere davvero. La narrativa dovrebbe essere un esercizio contro la pigrizia.
All’inizio del mio romanzo, la ragazza potrebbe sembrare una escort, poi a pagina dieci ti fai un’altra impressione, a pagina cinquanta un’altra ancora, e così via. Fino alla fine del libro non sai mai deciderti esattamente, e questa è una delle piccole responsabilità che ci si può prendere, da narratori. Bisogna dare fiducia ai lettori, magari anche a sproposito.
Ma allora quanta responsabilità ti vuoi e ti puoi prendere, come autore?
Il narratore funziona come un’antenna: si sintonizza su una cosa che esiste già e gli dà una forma possibile di traduzione. La responsabilità che possiamo prenderci è mettere su carta uno sguardo, non una spiegazione. La narrativa, come la intendo io, mi è sempre parsa come un tizio che si siede di fianco a te al cinema e ti racconta cosa vede. Non un tizio che ti si siede di fronte per spiegarti qualcosa. Diverso è l’atteggiamento di certa narrativa più didascalica che si mette davanti al lettore e lo conduce. Non c’è niente di male, di per sé, ma è un gioco che dopo un po’ mi annoia.
Seconda birra
Ho appena finito di leggere Sleeping beauties, il nuovo romanzo di Stephen King scritto con il figlio Owen. Tutte le donne del mondo si addormentano, lasciando solo gli uomini in un mondo che va a scatafascio. Il messaggio banale che si può trarre è: uomini cattivi, donne buone. Ma in realtà il punto è da tutt’altra parte, e di certo non c’è un messaggio morale. Il pericolo, però, si annida proprio nel rapporto con il lettore, sulla sua ricezione.
Guarda, di solito la narrativa si appoggia agli stereotipi per velocizzare la comunicazione e creare un territorio condiviso. La grande letteratura, poi, distrugge quegli stereotipi, li ribalta. Poi, certo, quando fai operazioni con il numero di lettori di King il rischio è più alto, e non è certo il mio caso. Ma in Cronaca di lei succedono molte cose rispetto al ruolo della donna. Le donne non sono solo protagoniste ma hanno anche diversi gradi di violenza subìta. Violenza fisica, per esempio, messa poi a tacere da altre donne. Violenza psicologica, come per Irene, la sorella/manager di Milo, che si è indurita dopo essersi fatta strada in un mondo di maschi – ci siamo illusi con Million Dollar Baby, ma nel pugilato le donne sono ancora quelle che mostrano il cartello del round con le tette fuori. Irene ha fatto cose brutte per riuscire, e qual è la morale? Quale il giudizio? Non sta al narratore dirlo. Il narratore mette in scena, e basta. Pensa a Beatrix Kiddo di Kill Bill e tutti quelli che ha ammazzato. Ha fatto bene o male? Era quella la risposta giusta alla sua situazione? Non lo so, e non lo devo sapere. Magari l’autore ha un’idea a riguardo, ma non sono cazzi del lettore.
La boxe è un’ottima metafora per molte cose, ma bisogna raccontarla bene. Come hai fatto, tu? Mi sembra che ci sia una questione sinestesica a riguardo. Sì, ho detto “sinestesica” dopo due birre.
Tutti i miei romanzi nascono dai titoli. Prima penso al titolo, e poi a tutto il resto. In questo caso è Cronaca di lei, dunque c’era una “lei” a cui doveva succedere qualcosa. Il caso poi ha voluto che la figura maschile che volevo metterle accanto si è andata precisando in un pugile. Un po’ perché la boxe è da sempre il corrispettivo di qualcosa che è la nostra vita, qualcosa di profondo, religioso, il ring in cui i miserabili resistono, rimangono in piedi e riescono ad accedere a un premio che è terreno, non ultraterreno. Se ci pensi è formidabile: tutti i grandi campioni del pugilato, tutti quelli che sono diventati racconto, sono dei miserabili. Emigrati, underdog, gente sfigata a cui la vita non aveva dato nessuna chance. Lottando, non cadendo, si sono ritagliati un posto nel mondo, e questa, per me, è pazzesca, come idea.
La box, poi, è un mito prettamente del novecento, della rivoluzione industriale. Un aspetto che volevo raccontare è questo: cosa diventa uno sport/mito quando lo corrompiamo con il sistema economico contemporaneo. Oggi lo sport è anche un’impresa economica, gli atleti hanno imperi attorno a loro, imperi che non hanno quasi più nulla a che vedere con le loro prestazioni sul ring, o sul campo. Come si contamina tutto con tutto?
Terza birra
E la sinestesia?
Io ho fatto boxe, l’ho provata. E riesco ad attivare la mia scrittura solo con dettagli sensoriali. Se uno non conosce l’odore di una palestra, è strano scrivere di boxe, perché quello è un odore molto specifico: il sudore invecchiato nella gommapiuma dei guantoni che non si possono lavare. Generazioni, archeologie di odori. Praticamente un reperto industriale. E anch’io, nel mio piccolo, quando ho provato a boxare ho sentito quella paura che ti assale quando suona la campanella e ti avvicini a centro ring, verso il tuo avversario. Come ti senti, in quel momento? E come ti senti dopo la prima tranvata che ti prendi in faccia? E i rumori dei guantoni contro i corpi, sembrano pezzi di legno che sbattono. Ho bisogno di tutte queste cose, per scriverne.
Allora continuiamo a parlare di sport. Di pallacanestro, nello specifico. Una delle cose che mi piacciono di più di Steph Curry è la sua capacità di rendere i numeri spettacolari sempre funzionali al gioco. Quando si passa la palla tre volte dietro la schiena, o tra le gambe dell’avversario, lo fa sempre in funzione del gioco, mai per show fine a se stesso. Lo spettacolo è un graditissimo effetto collaterale. Secondo me la scrittura in questo romanzo funziona allo stesso modo: ha un range lessicale abbastanza ampio (un set di skills, come Steph), ma allo stesso tempo è tutto funzionale a ciò che devi dire, non c’è mai una parola messa lì per fare il fighetto. Quando scrivi un libro, come fai a calcolare il range di lessico da usare?
Di solito, io scrivo libri che mi piacerebbe leggere. E negli anni è molto cambiato quello che mi piace leggere. Il mio primo libro, per esempio, è super barocco, con tante parole, tanta generosità. Gordo, come direbbero gli spagnoli. Poi, nel tempo, ho capito sempre meglio ciò che è buono per me, e adesso ho imparato a scegliere con cautela e con esigenza le parole che uso. Nel caso di Cronaca di lei, io volevo che fosse un romanzo molto visivo, e le dinamiche gestuali di azione dei corpi, se le descrivi in aulico, non si capiscono. E per me è stato molto faticoso, perché questo libro nasce per sottrazione e mantenimento solo di quegli elementi sufficienti per orientarsi nella narrazione. Niente di più se non le fondamenta, i pilastri.
Ultima birra
Bene, adesso chiudiamo con lo strutturalismo. Cronaca di lei, e la “lei” del titolo, che non ha nome per tutto il libro, mi ha fatto venire in mente una funzione narrativa di Propp, quella dell’Oggetto Magico, che trasforma il valore delle persone che se lo passano di mano in mano. Come funziona tutta la storia?
Sì, è come dici tu, e aggiungo una cosa: questo oggetto, passando di mano, cambia anch’esso. Lei è un personaggio che magnifica e scatena le reazioni degli altri. Il romanzo è diviso in due parti: la prima in cui lei è una donna che subisce il gesto altrui, e tenta di farsi definire dagli altri, oltre che a definirli. Poi, a un certo punto, si ritrova. Le persone, anche quelle a cui vogliamo bene, ci contaminano un po’, e hanno anche un effetto inverso, come il Viakal: tolgono la macchia e ci danno un po’ di repellenza allo sporco. E lei fa esattamente questo: si circonda di persone che possono redimerla, poi si sporca di una macchia e prova a togliersela da sola. Ed è talmente magica da non avere un nome. I nomi funzionano per magnificazione inversa, se ci pensi. L’unico modo che avevo per farla sembrare più alta di tutti gli altri, quelli con nome e cognome, era darle solo un pronome. Cosa che dà qualche problema tecnico perché se immagini di scrivere una scena con due personaggi femminili e dici “lei”, chi cazzo è lei?
Ma tu, alla fine della fiera, lo sai il suo nome?
No.