Il Grande Fratello siamo noi, non Facebook e Cambridge Analytica

Fare business (e cultura) che ha distrutto la politica, il pubblico e il privato. E di una cultura orrorifica del controllo generalizzato che include noi stessi

Siamo tutti spiati? Il Grande fratello ci osserva? Lo scandalo Cambridge Analytica, sull’utilizzo di dati psicometrici per influenzare e vincere le campagne elettorali, risveglia le preoccupazioni di molti circa la natura dei Social media come strumento di sorveglianza. Se la società di consulenza americana abbia raccolto dati in modo fraudolento o meno, perfino al fine di ricattare qualche avversario politico, lo stabilirà la magistratura. Di certo, il tema della profilazione degli utenti, preoccupante in sé, non è una novità. Perché dolersene solo adesso? Facebook nasce per raccogliere dati, ricostruire le preferenze dei consumatori e offrire loro delle pubblicità ritagliate sui propri gusti, al fine di massimizzare il ritorno commerciale.

Se l’algoritmo di un social che ci consiglia la prossima canzone da ascoltare non ci preoccupa, diverso è il caso della politica. Ma tutto ciò avviene già da qualche anno: la campagna elettorale di Obama utilizzò per la prima volta i “Big data”, fra il plauso di chi lodava le magnifiche sorti et progressive del Web. Certo, i dati di Obama erano raccolti in modo trasparente e senza il ricorso a pretestuosi studi universitari, come sembrerebbe oggi, ma il dubbio che il tema dell’influenza politica di Facebook sia diventato un problema solo ora, perché ne avrebbero beneficiato figure ritenute “impresentabili” dall’opinione pubblica liberale come Putin e Trump, è più che fondato. D’altronde, l’idea stessa che le democrazie alimentino un dibattito pubblico basato sui fatti, contrapposte alle democrature delle fake news, è falsa, senza voler minimizzare la natura ostile e preoccupante dal punto di vista della compressione delle libertà civili che si registra in certi regimi: dalla gennaion pseudos di Platone, la nobile bugia sulla quale si basava la Repubblica, alla moderna teoria delle élites, per la quale la democrazia è governata da gruppi di interessi e caratterizzata da idee dominanti “che sono le idee della classe dominante”, come diceva Marx, la distinzione, in politica, fra fatti e opinioni è molto ambigua.

Tutti i regimi o tutte le forze politiche cercano di presentare visioni del mondo compatibili con i propri valori o la propria agenda, democrazie comprese. La natura democratica dei nostri regimi, allora, non risiederebbe nella natura fattuale o non persuasiva delle informazioni che dominano lo spazio pubblico, ma nella natura contendibile e competitiva delle élites e delle opinioni che lottano in un mercato pluralistico per diventare dominanti (a tempo determinato). Perché da noi, i cittadini a contatto con idee differenti si formerebbero le loro idee liberamente. È questo, allora, il vero punto preoccupante dei social media: la “bolla del filtro”. I social, infatti, rafforzano i nostri pregiudizi perché ci consigliano opinioni che blandiscono le nostre convinzioni, piuttosto che farci confrontare con l’alterità che è nutrice del pensiero critico, libero e anticonformista.

Il tema della profilazione degli utenti, preoccupante in sé, non è una novità. Perché dolersene solo adesso? Facebook nasce per raccogliere dati, ricostruire le preferenze dei consumatori e offrire loro delle pubblicità ritagliate sui propri gusti, al fine di massimizzare il ritorno commerciale

Da questo punto di vista, però, il problema più grande non sarebbe la comunicazione politica tout court dei partiti, che è tagliata sui valori che gli elettori hanno già maturato ed esplicitato con i loro “like”, ma sulla informazione in genere che passa sulla nostra bacheca e che, enfatizzando le opportunità o rischi insiti nella migrazione, ci fa propendere a priori per una proposta di sinistra o di destra. Come notavano Adorno e Horkheimer negli anni ‘70, dunque, l’industria culturale influenza le nostre opinioni politiche più e meglio dei partiti: un film orienta più di un comizio. Che fare? È un problema solo dei social? Ci troviamo, probabilmente, in una situazione prodotta da due tendenze uguali e contrarie che sono esplose dal ‘68 in poi. Da una parte la politicizzazione del privato, dall’altra la spoliticizzazione del pubblico: in definitiva, la fine della distinzione fra sfera pubblica e privata che era alla base dello Stato liberale classico. In omaggio all’aforisma di Simone De Beauvoir «Il privato è pubblico», scelte intime come il sesso e il rifiuto di mangiare carne hanno assunto una valenza politica e pubblica. Mentre le libertà civili erano libertà dallo Stato, al quale si richiedeva di battere moneta, non di mettere il naso nelle camere da letto, con il ‘68 hanno prevalso le libertà dello Stato, con la richiesta pressante di intervento pubblico e normativo in una sfera che prima gli era precluso – testamento biologico, sessualità, aborto.

Allo Stato minimo si è sostituito lo Stato che entrava nella vita e dunque anche nell’economia, con nazionalizzazioni e partecipazioni statali. Alla (breve) stagione dei diritti socio economici, ha fatto seguito il riflusso, con una paradossale – rispetto alla militanza che negli anni ‘70 aveva prodotto certe istanze -, richiesta di spoliticizzazione del pubblico. È la fase delle tecnocrazie, del governo dei tecnici, della politica manageriale né di destra né di sinistra. Queste tendenze hanno favorito l’attuale assetto “biopolitico” dei moderni regimi, democratici o autoritari poco importa. Assetti caratterizzati da un potere dolce e persuasivo che viene interiorizzato dai suoi sottoposti; un potere che non si propone di punire il corpo con le carceri ma di persuadere l’anima dei cittadini con valori, opinioni, “discorsi”. Questo potere si basa sull’esproprio del privato, sulla possibilità che il potere possa conoscere tutto di noi, gusti intimi e preferenze sessuali comprese. Un sistema che funziona replicando il meccanismo della confessione religiosa: non il Grande fratello che ti impone di confessare, ma tu che, docilmente, confessi tutto al Grande fratello. È quello che succede su Facebook, dove registriamo e confessiamo tutto di nostra spontanea volontà, a patto che tutti facciano altrettanto.

Scompare la distinzione carceriere/carcerato, perché tutti siamo entrambi, e dall’altra parte non c’è più “il padrone” o il “capitalista”, ma un potere spoliticizzato, neutro, senza soggettività e volto. Prima di indignarsi rispetto alla psicometria o per la campagne elettorali on-line, dunque, dovremmo riconoscere che in questione non è il Web, ma il sistema “panottico” del controllo generalizzato che abbiamo creato. Youtube che ci suggerisce una canzone che sicuramente ci piacerà è una comodità o una minaccia? Perché dal momento in cui il potere non si esercita più sui corpi, ma nella testa delle persone, limitarlo alle canzoni e non alle scelte politiche sarà impossibile.

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