La giornata d’uno scrutatore: ecco perché la democrazia diretta non passerà mai

Mentre il Paese affronta l'emergenza neve, lo scrutatore lavora affinché le elezioni possano svolgersi. Quello del voto è un processo lungo, estremamente burocratico e faticoso. Ma che insegna che per salvaguardare la democrazia bisogna lasciare a casa lo smartphone e sporcarsi le mani

Sotto la neve e la pioggia, mentre l’Italia è bloccata dal maltempo e i camion del comune nuotano tra le strade della città per far fronte all’emergenza, lo scrutatore cammina tremolante verso il seggio. Lungo la strada calpesta la neve grigia che si apre sotto le scarpe, mentre dagli alberi cadono goccioline sporche che picchiano sulla testa e sul collo facendo rabbrividire.

È il pomeriggio di sabato 3 marzo, il giorno prima delle elezioni. Mentre gli italiani si preparano psicologicamente ad affrontare una tornata elettorale attesa da tanto, troppo tempo, le scuole delle città si riempiono di giovani universitari, lavoratori e disoccupati, politici e rappresentanti comunali: le persone che avranno il compito di preparare e gestire la lunga tornata elettorale. Già, perché spesso si dimentica che le elezioni le fanno i cittadini. Non solo votano: i cittadini sono garanti, sono calcolatrici, sono padroni e responsabili dell’atto democratico fondamentale. Questa verità viene spesso dimenticata, crocefissa dallo scetticismo nei confronti della classe politica e sepolta definitivamente dal venticello complottista. Con buona pace degli sfiduciati, è impossibile negare che il metodo con cui le elezioni politiche vengono svolte e monitorate sia limpido come un ruscello di montagna.

La novità di quest’anno – che forse Bersani non ha ben interpretato – è il tagliando antifrode. Ecco perché la preparazione delle schede è più complessa del solito e i tempi si allungano. Ogni scheda una firma, un timbro e un’etichetta. Il timbro non si vede mai, allora bisogna spruzzare altro inchiostro dalla boccetta facendo attenzione a non metterne troppo, che poi sbava. Attenti alle etichette, che devono rientrare nella forma dello spazio segnato, maledette etichette che si spezzano e devi inventarti pure il collage fuori tempo massimo. Ma non finisce qui. L’attività prediletta dello scrutatore è il calcolo: conta le schede, le riconta, le mette in pila, le firma, le riconta, le chiude con l’elastico, le passa al vicino che le timbra e poi le riconta, così poi si appiccica l’etichetta e sono pronte per essere ricontate un’ultima volta e infine appoggiate in pila sul fondo della scatola. Un lavoro alienante. Ma artigianale e quindi prettamente umano, che permette, verso l’ora di cena del sabato prima delle elezioni, di tornare a casa lasciando il seggio bello pulito e adornato a festa nelle mani dei carabinieri, pronto per affrontare il giorno della verità.

Fa un freddo cane la domenica mattina. Soprattutto se si ha dormito poche ore e la sveglia suona molto prima del solito. In corpo solo un poco di caffè per mantenersi in vita. Ci si lascia alle spalle il portone di casa e si cammina verso il seggio. Ad accompagnare lo scrutatore solo il cinguettio degli uccelli, mentre la città lentamente si sveglia. C’è qualcuno che però è già in piedi da parecchio. È l’elettore ignoto, il solerte vecchietto che aspetta davanti al portone ancora chiuso con in mano la tessera elettorale: è lui che dà il via alle danze.

Spesso si dimentica che le elezioni le fanno i cittadini. Non solo votano: i cittadini sono garanti, sono calcolatrici, sono padroni e responsabili dell’atto democratico fondamentale. Questa verità viene spesso dimenticata, crocefissa dallo scetticismo nei confronti della classe politica e sepolta definitivamente dal venticello complottista

Durante tutta la giornata i telegiornali parlano di lunghe code ai seggi a causa del nuovo tagliando che ha allungato il processo. Nulla di più vero: dalle 9 di mattina alle 8 di sera attorno al seggio si autoalimenta una lunga fila di persone pronte a votare. Questa insolita promiscuità restituisce un campione davvero rappresentativo della nostra società, formato da: anziani (molti), gruppi sparsi di famiglie in gita domenicale al seggio, qualche giovane scafato probabilmente di orientamento europeista Pd/Bonino, una manciata di prodi diciottenni emozionati per il primo voto, qualche antagonista pronto forse a segnare una bella “x” su Potere Al Popolo, un paio di facce arrabbiate con tanta voglia di votare molto a destra. Lo scrutatore sta seduto, saluta, segna sui registri il codice del documento d’identità e il numero della tessera elettorale. Ma soprattutto riconosce gli amici, i parenti, i politici, gli imprenditori gentili, gli anziani aristocratici, i comunisti sempre verdi, gli antifascisti in pensione, le persone che contano in città. Poco a poco viene istintivo provare a disegnare mentalmente una mappa del voto; così ogni sguardo è un rebus da risolvere incrociando le congetture personali con le informazioni che traspaiono dalle pagine social di YouTrend, aspettando con ansia le 23.

Le ore passano, ci si danno i turni per tornare a casa a riposare qualche minuto e per ingurgitare un pasto veloce. La gente continua ad arrivare. Lo farà fino all’ultimo, e si aspetterà anche qualche ritardatario. Ma la felicità per la buona affluenza è avvelenata dal pensiero che corre verso quella che sarà una lunga notte insonne.

Tra un dato sull’affluenza e l’altro, la giornata si trascina stanca fino al momento cruciale: l’annuncio degli exit poll. Li sento per radio, da Loquenzi. E in realtà non mi stupiscono affatto. Mi sarei aspettato solo qualche voto in meno per la Lega e qualche voto in più per Liberi e Uguali: la sconfitta della sinistra era uno scenario annunciato da tempo. Nessuna novità. Anzi, il pensiero va piuttosto a tutte quelle schede sulle quali i cittadini hanno espresso il loro giudizio, che ora dovranno essere conteggiate malgrado la stanchezza e cercando di non sbagliare. Così, in realtà, mentre nell’aria tuonano i nomi dei candidati e dei partiti declamati a gran voce dal presidente e i tavolini si riempiono di schede, le percentuali assumono sempre meno valore: i giudizi personali si piegano facilmente sotto il peso della noia. Nel grande sbadiglio generale, solo i tre voti presi da Ala nel nostro seggio riescono a suscitare un pizzico di ilarità.

Concluso lo spoglio, applicate le ultime firme e controllato che i calcoli tornino, ci si saluta per l’ultima volta e si torna verso casa trascinandosi dietro il peso morto del sacco contenente le schede e i faldoni; il presidente lo porterà al comune nel bel mezzo della notte come un malvivente legato al dorso di un cavallo.

La grande lezione del voto è proprio questa: le mani sporche di inchiostro, come quando si leggevano i giornaloni di carta. Le elezioni sono un processo lungo, faticoso, macchinoso. Viene da chiedersi, perché ostinarsi a portare avanti uno sforzo collettivo imponente come quello del voto? Così, riflettendo, ci ricordiamo di vivere in una democrazia

Vivendole da dentro, si capisce presto che le elezioni altro non sono che la quintessenza della macchina burocratica italiana. Ci sono protocolli rigidi da seguire, registri da compilare, milioni di firme da rilasciare. Non si deve sbagliare. Un conto che non torna e bisogna ricontrollare tutto daccapo. C’è carta ovunque, risme di fogli, risme di schede, verbali. Tutto numerato, tutto materiale del ministero che deve tornare a casa preciso preciso prima di finire al macero.

Fidatevi di uno scrutatore, la grande lezione del voto è proprio questa: le mani sporche di inchiostro, come quando si leggevano i giornaloni di carta. Le elezioni sono un processo lungo, faticoso, macchinoso. Viene da chiedersi, perché ostinarsi a portare avanti uno sforzo collettivo imponente come quello del voto? Così, riflettendo, ci ricordiamo di vivere in una democrazia. E ancor di più, che la democrazia e il rispetto dei diritti richiedono un enorme dispiego di materia, tempo ed energia, oltre che – e questo davvero è il monito per le nuove generazioni – di buona volontà. Ma soprattutto che la democrazia riguarda tutti, e proprio tutti siamo già segnati nei registri, in attesa di confermare la nostra presenza all’appuntamento decisivo.

Non è, la nostra, una democrazia diretta, come vorrebbero i 5 stelle. Per votare bisogna uscire di casa. Bisogna mettersi in coda, rivedere facce amiche e nemiche, mostrarsi davanti alla propria comunità, prendersi il tempo per l’ultima riflessione dentro la cabina e poi respiro, via: è andata anche questa volta. Lo smartphone usiamolo certo anche per migliorare le dinamiche della vita pubblica. Ma per favore, Terza Repubblica, lasciaci ancora il dovere di sporcarci le mani di inchiostro.

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