Dopo il grande slancio riformatore iniziato negli anni ’80, che nei due decenni successivi ci ha portato l’Unione europea e l’euro, nel nuovo millennio l’Europa ha a lungo sonnecchiato. Complici un’ansa placida nel flusso della storia e un allargamento verso est non compensato da un adeguamento dei precedenti meccanismi decisionali pensati per 12 Stati, il vecchio continente ha sospeso per anni il cammino verso un’unione sempre più stretta di popoli e Stati e si è permessa di sprecare alcune occasioni (una su tutte, la Costituzione europea bocciata da Francia e Olanda nel 2005). Ma adesso che da quell’ansa siamo usciti, e anzi la corrente sembra farsi sempre più impetuosa che mai con un presidente americano isolazionista (se non proprio ostile), una Russia che risorge, la Brexit, il terrorismo, il flusso migratorio e gli effetti di una crisi economica che hanno lasciato il segno a livello politico e sociale, anche l’Unione europea sembra attraversata da una maggior consapevolezza della necessità di un cambiamento. Il principale problema al momento è che gli Stati membri sembrano avere idee molto diverse del tipo di cambiamento che sarebbe necessario, e i mutamenti fondamentali nell’Unione europea (revisione dei trattati) richiedono di norma l’unanimità.
Al momento possiamo individuare, semplificando, tre grandi blocchi di Stati all’interno della Ue. Il primo è costituito principalmente da Francia e Germania, ma vede la partecipazione anche di molti altri Stati (tra cui la Spagna). La loro linea è marcatamente europeista e tesa a rimettere in moto il processo di integrazione comunitaria, anche a costo di procedere col meccanismo delle “diverse velocità”, cioè permettendo agli Stati che vogliono procedere su questo cammino di farlo senza sottostare al veto degli Stati contrari (che potrebbero raggiungere l’avanguardia in un secondo momento, qualora lo volessero). La vittoria in Francia di Emmanuel Macron, che ha puntato molto sui suoi progetti di rilancio della Ue e che è stata vissuta anche come una risposta alla crisi dell’Unione dopo la Brexit e il montare delle forze populiste ed euroscettiche, ha dato nuovo slancio a questa linea. Anche la riconferma di Angela Merkel alla guida della Germania sembra nascere proprio dalla volontà tedesca di non sprecare questa occasione (pare che il presidente della Repubblica, il socialdemocratico Steinmeier, abbia esercitato tutta la sua autorevolezza nel partito per spostarlo su una linea pro-Grande Coalizione).
Il principale problema al momento è che gli Stati membri sembrano avere idee molto diverse del tipo di cambiamento che sarebbe necessario, e i mutamenti fondamentali nell’Unione europea (revisione dei trattati) richiedono di norma l’unanimità
Un primo frutto, anche se di sole parole, per ora è rappresentato dal nuovo “Trattato dell’Eliseo”, ratificato dai parlamenti francese e tedesco lo scorso 22 gennaio, in cui tra le altre cose si parla di “rafforzare la cooperazione transfrontaliera” tra i due Paesi, di “un’integrazione completa e rapida dei loro mercati” e di “rafforzare la politica estera e di sicurezza comune”. Su quest’ultimo punto si dovrebbero registrare le minori resistenze da parte degli altri Stati. La “Pesco” (Cooperazione strutturata permanente nell’ambito della Difesa), nata a fine 2017, ha visto infatti la partecipazione di 23 Stati su 28 (tutti tranne Uk, Iranda, Portogallo, Malta e Danimarca). Ma su una maggiore integrazione politica ed economica le contrarietà promettono di essere molto forti.
A una maggiore integrazione e alla possibilità di ricorrere alle “diverse velocità” si oppongono infatti gli altri due blocchi. Il primo è il Gruppo Visegrad – che ricomprende Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia -, marcatamente sovranista e populista, che vuole mantenere i privilegi economici derivanti dalla partecipazione all’Unione europea ma non vuole che tematiche rilevanti (una su tutte, l’immigrazione) vengano sottratte alla gestione degli Stati nazionali per una gestione comune a Bruxelles. Tale blocco su alcuni temi potrà probabilmente contare anche sull’appoggio dell’Austria, governata da una coalizione di destra popolare e destra nazionalista xenofoba.
Il secondo blocco è emerso plasticamente di recente, quando a inizio marzo è stato diffuso a Bruxelles un documento firmato da Olanda, Svezia, Danimarca, Finlandia, Irlanda e repubbliche baltiche in cui si dice no all’Unione dei trasferimenti, no al bilancio comune dell’Eurozona e tantomeno a un ministro delle Finanze, rispetto inflessibile del fiscal compact, e in generale nessun nuovo trasferimento di sovranità e competenze a Bruxelles. In parole povere, no all’agenda franco-tedesca di riforma dell’Unione.
In questo scenario l’Italia dovrebbe giocare un ruolo importante, in quanto Paese membro fondatore dell’Unione europea, seconda economia industriale del continente e terzo Paese più popoloso (non contando il Regno Unito). Qualsiasi esecutivo dovesse nascere nei prossimi mesi sarà probabilmente chiamato a fare chiarezza sulla nostra linea in Europa, se prevarrà quella tradizionalmente europeista o se prenderà una piega euro-scettica
Nei prossimi mesi si vedrà quali proposte concrete metteranno in campo Francia e Germania, che sembrano avere chiaramente il pallino dell’iniziativa, se si tratterà di cooperazioni rafforzate (lo strumento principe per realizzare una Ue a diverse velocità) o di una revisione dei trattati (che, come detto, richiede l’unanimità). Si vedrà inoltre come reagiranno i due blocchi contrari a una maggiore integrazione – Visegrad e i “falchi” del rigore del Nord Europa -, se accettando una eventuale trattativa per raggiungere un compromesso oppure boicottandola. Il rischio è ovviamente che si vada verso una frattura non consensuale all’interno dell’Unione europea, il che aprirebbe degli spazi per le eventuali manovre di divide et impera delle superpotenze extra-europee (Russia, Cina e Usa soprattutto) e dell’uscente Regno Unito.
In questo scenario l’Italia dovrebbe giocare un ruolo importante, in quanto Paese membro fondatore dell’Unione europea, seconda economia industriale del continente e terzo Paese più popoloso (non contando il Regno Unito). Qualsiasi esecutivo dovesse nascere nei prossimi mesi sarà probabilmente chiamato a fare chiarezza sulla nostra linea in Europase, se prevarrà quella tradizionalmente europeista o se – per la prima volta in 60 anni – prenderà una piega euro-scettica. Se resteremo agganciati all’asse franco-tedesco o se, escludendo di andare a ruota dei Paesi “falchi” del rigore, ci sposteremo sulle posizioni dei Paesi sovranisti del centro-est Europa.