Perché la sinistra deve dire No al reddito di cittadinanza

Perché è un enorme disincentivo al lavoro, perché è una gigantesca redistribuzione di ricchezza da Nord a Sud, perché non è sostenibile economicamente: una forza che si dice laburista non può essere complice di una simile misura. E se lo diventa, si assumerà le responsabilità di un disastro

La novità più grande in questo risultato elettorale è la vittoria del Movimento Cinque Stelle, soprattutto al Sud, con percentuale di consensi che arrivano al 50%. Sarà importante capire, con il tempo, se questo è un voto di protesta frutto di un malcontento del Sud Italia che arriva da lontano e che lamenta l’assenza di politiche nazionali a sostegno dello sviluppo nonché l’inefficienza di una classe dirigente locale che spesso non si è rilevata all’altezza delle aspettative. Oppure se, al contrario, è un voto di natura più propriamente programmatica, volto a sostenere il reddito di cittadinanza, primo punto del programma con cui il Movimento 5 Stelle si è presentato a queste elezioni.

Qualcosa di simile c’è già, innanzitutto. Si chiama reddito di inclusione ed è uno strumento istituito dai governi Renzi e Gentiloni con il concorso e la partecipazione dell’Alleanza contro la povertà ed è simile a molti strumenti di contrasto all’indigenza in vigore nel resto d’Europa. Ha un costo di 2 miliardi di euro e può essere aggiuntivo rispetto a misure regionali e comunali. Gli aventi diritto sono nuclei familiari con un ISEE inferiore ai 6.000€ e un patrimonio che non superi la prima casa in proprietà. Per chi ha questi requisiti, il REI prevede un contributo mensile da 187 fino a €534, a seconda numerosità della famiglia oltre a servizi di inclusione sociale per 18 mesi dopo i quali bisogna aspettare altri 6 mesi per replicare la domanda. Già oggi il Rei risulta essere più richiesto e più utilizzato al sud rispetto al nord, con un rapporto di 4 a 1 (ed è normale e giusto che sia così). La platea delimitata e il limite temporale sono gli elementi che connotano questa misura che vuole essere di certo uno strumento per contrastare povertà ma anche un incentivo ad uscirne: chi può lavorare è giusto che possa contare su un aiuto per un periodo di crisi che però non può essere un sussidio permanente.

Il reddito cittadinanza invece ha un approccio culturale molto diverso: chiunque abbia un reddito inferiore a 780 euro mensili può fare richiesta per averlo. In questo modo si configura più come un sussidio di disoccupazione di durata infinita piuttosto che come sussidio alla povertà. Il reddito di cittadinanza, così come congegnato dai 5 Stelle, è quindi destinato a diventare un forte disincentivo al lavoro. La minaccia di ritirarlo se una persona non accetta la terza offerta di lavoro è chiaramente un’arma spuntata: la condizionalità del beneficio è infatti spesso inapplicabile ed inapplicata in tutti i paesi d’Europa, figurarci in Italia dove le politiche attive hanno appena visto la luce dopo 20 anni di promesse e dove alcune zone del paese sono depresse per mancanza di occasioni di lavoro.

Senza condizionalità reali, in altre parole, il reddito cittadinanza dei CInque Stelle – che non ha limiti temporali – sarebbe quindi garantito all’infinito. Il fatto che una tale beneficio non possa essere ritirato una volta che lo sia concesso è un problema ben noto a tutti quelli che hanno avuto una qualche pratica della letteratura internazionale e una qualche pratica di governo. Forse è per tutte queste problematiche DiMaio ha fatto già una clamorosa marcia indietro ed ha dichiarato che per il reddito di cittadinanza bisogna aspettare 3 anni? Lo scopriremo presto, forse.

Il reddito di cittadinanza, così come congegnato dai 5 Stelle, è quindi destinato a diventare un forte disincentivo al lavoro e la promessa di ritirarlo se una persona non accetta la terza offerta di lavoro è chiaramente vuota per chiunque conosca la realtà dei nostri territori – altro che congruità: tre offerte di lavoro molto spesso nemmeno arrivano – e la realtà dei nostri servizi all’impiego

Non solo: se dal punto di vista economico il reddito di cittadinanza non è sostenibile, lo è ancor meno dal punto di vista politico. Nel patrimonio culturale della sinistra c’è in primo luogo la difesa del valore del lavoro. Non dimentichiamo che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1 della Costituzione) e che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere una attività o una funzione che concorre al progresso materiale e spirituale della società” (art. 4 della Costituzione). La sinistra deve contrastare un’operazione mirata alla costruzione di una cultura del risarcimento per un territorio oggetto di uno sfruttamento secolare (per capire fino in fondo questa visione, leggete l’intervista che Pino Aprile ha rilasciato a Linkiesta). Così com’è congegnato, infatti, il reddito di cittadinanza sarebbe un maxi redistribuzione di reddito dal nord al sud Italia.

Che fare, allora? Passata la campagna elettorale e la sua irrazionalità, è utile ricordare che, per una serie politica di contrasto alla povertà, non esistono scorciatoie come l’assistenzialismo. Esiste piuttosto la possibilità di rivedere la gestione dei fondi europei, di rafforzare le misure come il REI, di rafforzare (solo per il sud) gli incentivi per le assunzioni e gli incentivi per gli investimenti; dislocare le zone Franche al Sud e insistere con i piani di sviluppo ricordando quello che insegnano le esperienze internazionali e cioè che ogni territorio può svilupparsi solo se le sue istituzioni diventano da estrattive a inclusive. È quindi innanzitutto una questione di natura politica che ha a che fare con la possibilità, per ogni paese e ogni regione, di elaborare strategie di sviluppo locale che generino nuove attività e nuovi posti di lavoro e non può essere risolta dall’esterno. Per tutti questi motivi la proposta del reddito di cittadinanza rappresenta una proposta economicamente insostenibile e culturalmente involutiva e quindi politicamente non percorribile.

Un’attenzione molto maggiore meriterebbe il dibattito sul reddito di cittadinanza per contrastare la disoccupazione tecnologica. Ma in questo caso questo argomento sarebbe utilizzato in maniera del tutto strumentale. Se anche fosse vero che la tecnologia ruba i posti di lavoro – e non lo e, prova ne sono i tassi di disoccupazione bassissimi in paesi tecnologici come Usa e Germania – il reddito di cittadinanza sarebbe in anticipo di almeno 20 anni e nel frattempo avremmo distrutto ogni possibilità di sviluppo futuro del Mezzogiorno.

In conclusione il problema dell’Italia è la disoccupazione strutturale e non certo tecnologica. La soluzione è aumentare il beneficio economico (ma non necessariamente la durata, che disincentiva il lavoro) sia del sussidio di disoccupazione sia del REI (peraltro come già previsto dal programma del PD) e rafforzare la rete dei servizi di inserimento al lavoro in concerto con le regioni. Bisogna in tutti i modi evitare che il cambio di governo porti a disfare il lavoro prezioso fatto in questi ultimi anni insieme ai sindacati e alle associazioni di volontariato e di promozione sociale.

*professore di economia politica presso l’università degli studi di Milano e consigliere economico alla Presidenza del Consiglio

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