Finito lo spoglio il Paese è attualmente ingovernabile, ma con due vincitori conclamati, non solo morali: 5 Stelle e Lega Nord. Due Partiti ognuno a suo modo atipico, con non pochi punti in comune, ma soprattutto un grosso fil rouge: aver portato al seggio elettori con la schiuma alla bocca, che non hanno votato forse “più forte che potevano”, ma avevano comunque un livello di bile ben più alto della media nazionale.
Fossimo in “Inside Out”, il cartone della Pixar, avremmo quindi un solo personaggio al comando: Rabbia.
Alla classe politica italiana, ancora una volta, si è richiesto un cambiamento. Lo si è chiesto non in maniera serena, ma furiosamente. E allora il tipo di cambiamento richiesto non potrà che essere radicale, sostanziale, universale: talmente universale che non ci si pone oggi neppure il problema di cosa verrà dopo. È chiarissima, come forse troppo spesso nella storia recente di questo Paese, la pars destruens. E poco importa se la construens non è sviluppata: tanto, “peggio di quelli di prima”, dei “dottoroni”, “non si può fare”. E invece sì, purtroppo: non siamo ancora la Grecia, né il Venezuela, ma non è affatto troppo tardi per diventarlo. Anzi.
“Ruspe” e “reddito di cittadinanza” sono le parole chiave, i nuovi mantra che scardinano ogni manifesto, silenziano sul nascere ogni dibattito da Floris, nell’era della post-verità. È un fenomeno nuovo, a cui bisogna abituarsi in fretta tutti, dagli studenti di scienze politiche agli spin doctor. È la nuova democrazia, quella forse uscita da Internet
Il problema di fondo è che il cambiamento è sopravvalutato. È una parola talmente abusata in politica e nella società civile da essere ormai vuota, ben distante dagli slogan obamiani del “change we can believe in”: invocata da tutti, anche spesso da chi sta al potere, la discontinuità è un gioco sterile, che promette di rompere senza potersi assumere la responsabilità di ricostruire alcunché.
Un cambiamento sensato è quello progressista, che muove per riforme. Il cambiamento iroso è quello dell’assalto ai palazzi del Potere, alle banche. È quello destabilizzante, della rivoluzione. Ma siamo pronti a fare la rivoluzione, nell’epoca post-ideologica? Una rivoluzione fatta da persone unite solo dall’odio, dalla volontà di appiccare il fuoco un po’ per intolleranza, un po’ per esasperazione, un po’ per invidia sociale, una rivoluzione siffatta è auspicabile? E soprattutto, una volta sgominato il nemico, finto o reale che sia, cosa facciamo sul campo verde della battaglia coperto di corpi, se i superstiti scoprono di avere idee antitetiche e inconciliabili? Stiamo attenti, insomma: perché se col cambiamento si può guarire, di cambiamento si può anche morire.
Il problema di fondo è che il cambiamento è sopravvalutato. È una parola talmente abusata in politica e nella società civile da essere ormai vuota, ben distante dagli slogan obamiani del “change we can believe in”: invocata da tutti, anche spesso da chi sta al potere, la discontinuità è un gioco sterile, che promette di rompere senza potersi assumere la responsabilità di ricostruire alcunché. Un cambiamento sensato è quello progressista, che muove per riforme
L’Italia che manda a governare la coppia Di Maio – Salvini non è però la stessa, ma la sommatoria di due sfumature di “Vaffanculo” distinte.
La prima, quella che ha fondato tutto il Movimento, con il giorno omonimo, è diretta ai Partiti. Era un segnale già arrivato chiaro nelle sedi dei Partiti stessi, ma questi non hanno fatto abbastanza per cambiare pelle, per adattarsi alle richieste degli elettori. È una loro colpa? Indubbiamente, ma solo in parte. Perché è molto più “colpa” degli elettori, e delle loro istanze sostanzialmente irricevibili dal buon senso: uscire dall’Euro, la lotta anti-vaccini, il reddito di cittadinanza senza badare neanche vagamente alle coperture.
Il secondo “Vaffanculo”, quello di chi ha fatto il segno sul simbolo del Carroccio, è proprio diretto verso questo “buon senso”. Non è un caso che, nel 2018, chi difende valori riconosciuti sulla Carta universale dei diritti umani sia spesso tacciato di “buonismo” o, meglio, di “fintobuonismo”. Le richieste di questo elettorato si smarcano da questioni di principio e muovono dalle difficoltà del quotidiano, corroborate da una stampa in alcuni casi complice. La sensazione è che la Lega sia percepita oggi non più come il Partito delle provocazioni, radicato in un paio di regioni settentrionali ma visto poco credibile nel resto d’Italia. La nuova Lega, quella senza l’etichetta “Nord”, è diventata agli occhi di molti italiani una forza quasi moderata – totalmente moderata, nei numeri, se è vero che hanno battuto anche il “Partito delle Libertà” – qualcosa di cui non c’è più da vergognarsi se li si vota, benché brandiscano una minaccia di “invasione” che, dati alla mano, non ha senso nel nostro Paese, benché parlino di uscire dall’Euro, di dazi doganali, benché incarnino una rappresentazione grottesca e scimmiottata di quel Trump la cui politica crea così tanta ilarità nella nostra popolazione.
Il dibattito politico della campagna elettorale si è progressivamente schiacciato col passare degli anni fino a rassegnarsi alle urla “al ladro al ladro”, l’asta al ribasso di stipendi comunque immeritati. La vittoria schiacciante dei 5 stelle è la rivincita delle masse sui “radical chic”, è la vittoria dei volantini ciclostilati in Comic Sans con obiettivi non credibili (“zero sbarchi”) versus i programmi dettagliati in siti attenti alla user experience elaborata in costosissimi studi milanesi
E così, la sinistra del Paese, o quel poco che ne rimane dopo il crollo del PD, si trova sconcertata: perché non è stata battuta solo dalla destra – a quello è sempre stata abituata: questo Paese, in condizioni “standard”, ha sempre propeso per quella parte – ma perché si è resa conto che la costruzione di un consenso sensato, l’equilibrio, il tentativo di arrivare al compromesso, la dedizione nello stendere programmi onnicomprensivi: tutta questa fatica, nel 2018, è sostanzialmente inutile. Se non dannosa. Il dibattito politico della campagna elettorale si è progressivamente schiacciato col passare degli anni fino a rassegnarsi alle urla “al ladro al ladro”, l’asta al ribasso di stipendi comunque immeritati.
La vittoria schiacciante dei 5 stelle è la rivincita delle masse sui “radical chic”, è la vittoria dei volantini ciclostilati in Comic Sans con obiettivi non credibili (“zero sbarchi”) versus i programmi dettagliati in siti attenti alla user experience elaborata in costosissimi studi milanesi.
Vedete? Già così vi staranno più simpatici.
Inutile insomma, nel 2018, lavorare di fino sui programmi, verificare come sistemare i conti, ragionare su un tetto al debito pubblico. “Ruspe” e “reddito di cittadinanza” sono le parole chiave, i nuovi mantra che scardinano ogni manifesto, silenziano sul nascere ogni dibattito da Floris, nell’era della post-verità.
È un fenomeno nuovo, a cui bisogna abituarsi in fretta tutti, dagli studenti di scienze politiche agli spin doctor. È la nuova democrazia, quella forse uscita da Internet, dall’”Era della conoscenza”, dove pensavamo stolidamente che “essere ignoranti” fosse ormai solo “una scelta”, e invece pare essere cogente, e di moda più che mai.
E dove dobbiamo forse arrenderci che per parlare alle pance non bisogna usare la dialettica dei cervelli fini. Ma essere ventriloqui.