Rabbia, rancore, rivincita: così l’Italia dei borghi e dei distretti si è ribellata a Matteo Renzi

Piccole imprese, capitalismo di relazione, banche popolari: i territori della Terza Italia che vanno dal Veneto all’Abruzzo sono l’architrave economica dell’Italia, ma la crisi ha dato loro un colpo micidiale. Per capire il tracollo di Renzi e il boom di Salvini e Di Maio bisogna partire da qui

Il Nord a Matteo Salvini, il sud a Luigi Di Maio; al nord la flat tax al sud l’assistenza e il reddito di cittadinanza. E allora le Marche, l’Abruzzo, l’intera fascia adriatica che scende giù dalla Romagna? Come spiegare il collasso del Pd e il successo dei due partiti populisti? Mentre la geografia politica del voto sembra nettamente delineata, la geografia economica è più sfumata e anche più complicata. Senza voler peccare di economicismo volgare, un aspetto emerge in modo netto: il rimescolamento delle preferenze politiche in quella parte del paese chiamata Terza Italia che non coincide necessariamente con il centro, ma piuttosto rappresenta l’architrave del modello economico come si è formato dagli anni ’70 del secolo scorso in poi: l’Italia dei distretti analizzati da Giorgio Fuà e Giacomo Becattini, l’Italia borghigiana raccontata da Giuseppe De Rita. Una Italia affluente, laboriosa e politicamente moderata, allevata con cura dalla grande chioccia democristiana e dalle cooperative rosse per lo più in competizione collusiva, poi oscillante tra centro destra e centro sinistra. Ebbene, oggi sembra mesmerizzata dalle forze più radicali, Lega e Movimento cinque stelle. Come mai?

Cominciamo con il riconoscere che quel modello economico ha tenuto a galla l’intero paese, nord compreso durante il lungo e doloroso addio della grande industria. Grazie ai suoi ammortizzatori locali (famiglia, banche popolari, cooperative di consumo e quant’altro) ha assorbito in parte anche lo shock della moneta unica, finché non è stata attraversata, nel decennio della lunga recessione, da sciabolate e fendenti micidiali. A quel punto, il tessuto socio-economico che sembrava così compatto, si è sbriciolato, non ha retto alla globalizzazione e alla grande trasformazione prodotta dalla economia digitale. O meglio, in pochi hanno resistito, gli happy few che oggi sono in grado di competere dalle nicchie di eccellenza fotografate da Marco Fortis grazie alle loro multinazionali tascabili. Molti, troppi, sono rimasti indietro o sono caduti sul terreno. La selezione schumpeteriana non è un pranzo di gala, però le forze politiche moderate non hanno apparecchiato nemmeno il tinello.

Le Marche sono la riprova di tutto ciò. Il distretto delle calzature così come quello dei mobili hanno sofferto duramente e non si sono mai veramente ripresi dal crollo del 2008. Chi ce l’ha fatta oggi è più solido, ma un solo Della Valle non può reggere una intera filiera industriale, nonostante faccia il benemerito filantropo aprendo una fabbrica nell’area colpita dal terremoto. Anche il Veneto più ricco e solido, dove fiorisce il quarto capitalismo descritto da Mediobanca, ha visto deperire interi distretti e persino quello bellunese degli occhiali si sente minacciato dopo che Luxottica si è sposata con la francese Exilor. Così anche nei territori che a lungo avevano goduto della piena occupazione comincia la caccia al posto che non c’è e scoppia la guerra tra poveri: gli immigrati vengono accusati non solo di minacciare la quiete e la sicurezza delle comunità un tempo beate, ma di rubare il lavoro.

L’impatto delle crisi bancarie è stato micidiale; erano proprio quelle banche popolari a reggere buona parte dell’architrave economico e sociale, anche grazie alla loro gestione clientelare. Un prestito non si nega a nessuno meno che mai ad amici e conoscenti: “Se non potete restituirlo, negoziamo, tanto la banca non fallisce e affinché ciò non accada vi diamo altri soldi per tenerla in piedi comprando le sue azioni”. La fabbrichetta, i bed&breakfast, i negozi per turisti, il cibo locale, un mondo intero di buone cose (magari anche di pessimo gusto), è stato alimentato così, con questo venture capital all’italiana. Finché i crediti deteriorati non hanno cominciato a marcire e i non performing loans sono diventati i nostri subprime.

È vero che sono crollate solo poche banche, come ha detto spesso Pier Carlo Padoan, ma hanno avuto un impatto davvero sistemico perché hanno trascinato con sé quel modello del quale erano il sostegno. Non lo ha capito la banca centrale, non lo ha capito il governo e nemmeno Matteo Renzi che pure è un figlio di quella Italia. La riforma delle banche popolari che in gran parte ha contribuito ad aprire il vaso di Pandora, pur doverosa per modernizzare il mondo del credito, è stata introdotta senza anticipare la reazione a catena che avrebbe inevitabilmente prodotto. I conflitti d’interesse della famiglia Boschi e della Banca dell’Etruria sono un’aggravante, non la causa. Ciò riguarda anche Gianni Zonin e la Popolare di Vicenza o i pasticci della Banca delle Marche; tutte variabili perverse di un unico fenomeno.

La spiegazione non è solo quantitativa. Se si va a guardare l’andamento economico (redditi, consumi, prodotto lordo) dei territori colpiti dalle crisi bancarie, soprattutto Siena, Arezzo, Vicenza, si vede che tutti gli indicatori, nei dieci anni di crisi, sono migliori rispetto alla media. Basta consultare le analisi dell’Istat o delle camere di commercio. Ma le medie nascondono le diseguaglianze, non separano vincitori e vinti. Invece proprio questo ha fatto scattare la rabbia, il rancore, la rivincita, le tre R che rappresentano in gran parte il terremoto del 4 marzo 2018.

Basta ascoltare i discorsi degli imprenditori, dei commercianti, dei lavoratori: tutti vogliono pagare meno tasse ovviamente e la flat tax ha avuto un forte appeal, ma tutti chiedono più protezione dal governo, dazi contro i prodotti stranieri, anche europei, cassa integrazione illimitata, prestiti a tasso zero, salvataggio pubblico delle banche private. E tanto peggio per le compatibilità europee e la finanza pubblica

Sempre per non cadere nell’economicismo, non va trascurata la componente culturale e squisitamente politica di questa crisi. Si diceva un tempo che il modello italiano combaciava perfettamente con la rivoluzione neoliberista: meno stato più mercato, meno protezione più libertà, meno tasse più profitti. Ed è stato così per un ventennio o forse più. Oggi, invece, basta ascoltare i discorsi degli imprenditori, dei commercianti, dei lavoratori: tutti vogliono pagare meno tasse ovviamente e la flat tax ha avuto un forte appeal, ma tutti chiedono più protezione dal governo, dazi contro i prodotti stranieri, anche europei, cassa integrazione illimitata, prestiti a tasso zero, salvataggio pubblico delle banche private. E tanto peggio per le compatibilità europee e la finanza pubblica. Non è un caso che la Lega si sia battuta fino all’ultimo per usare in varie forme denari dei contribuenti (quelli di altre zone del paese e che pagano le imposte) allo scopo di tenere a galla la Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Così è avvenuto, in sostanza, ma troppo tardi.

Non solo. La sinistra riformista ha compiuto negli anni ’90 una svolta ideologica profonda accettando la globalizzazione e le regole di mercato, smontando pezzo a pezzo lo stato banchiere, industriale, pasticcere e quant’altro. Questo ha fatto scandalo allora nella gauche più radicale. Oggi, invece, pesa come una sorta di colpa collettiva. I pentastellati sono neo-statalisti e protezionisti, quanto a Salvini ha rinnegato totalmente il localismo liberista di Umberto Bossi. In un articolo uscito la settimana scorsa, il Wall Street Journal si chiede che fine abbia fatto nell’Europa continentale la sinistra moderata, perché il fenomeno accomuna l’Italia alla Francia dove il Partito socialista è pressoché scomparso e alla Germania nonostante le condizioni economiche dei due paesi siano agli antipodi. Il fatto è che anche la Spd ha parlato più ai grandi colossi multinazionali che al Mittelstand, quel tessuto di piccole e medie aziende che costituisce la ferra ossatura della economia tedesca. E da lì sono arrivati molti dei consensi ad Alternative für Deutschland, il partito neo-nazionalista.

L’Italia è stata spesso un laboratorio politico anticipando fenomeni epocali (non tutti positivi, si pensi al fascismo), questa volta è solo parte di un trend più generale. Solo che altrove in Europa le dighe del sistema hanno retto, qui no. Se il risultato elettorale segna davvero il punto di svolta del modello italiano sbocciato dagli anni ’70 in poi, chiunque andrà a governare avrà un compito enorme. E per ricostruire o magari costruire qualcosa di nuovo non basterà promettere il ritorno al tempo perduto.

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