I genitori del ‘68 non potevano aspettarselo. Se glielo avessero detto, non ci avrebbero creduto. Eppure è andata così. Il cartone animato simbolo della generazione dei loro figli, quelli concepiti tra un’occupazione e una barricata, è stato un robot che “mangia libri di cibernetica e insalate di matematica”, Goldrake. Certo, non avranno visto solo quello, ma nessuno, tra chi era bambino a cavallo tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, poteva esimersi dalla visione. La prima puntata venne trasmessa 40 anni fa, il 4 aprile 1978. Fu subito un clamoroso successo, che diede il via all’invasione di “anime” giapponese in Italia. Ma a cosa fu dovuto tutta questa fortuna? Ce lo spiega Vincenzo Filosa, fumettista e traduttore di maestri del manga: «C’è un evidente parallelismo tra la storia giapponese e la storia italiana del dopoguerra. Entrambe hanno vissuto l’occupazione, la colonizzazione culturale americana e una ricostruzione veloce e traumatica».
Il cartone animato simbolo della generazione dei loro figli, quelli concepiti tra un’occupazione e una barricata, è stato un robot che “mangia libri di cibernetica e insalate di matematica”, Goldrake.
E se è vero che in Italia il boom economico ha portato, Pasolini docet, alla perdita di culture tradizionali tramandate da generazioni, ciò che avvenne in Giappone fu una vera e propria rivoluzione. Un totale rovesciamento di paradigma. «Gli americani prima sganciarono le due bombe atomiche, poi occuparono il Paese fino al 1952 e infine obbligarono l’imperatore Hirohito a rinunciare alla sua natura divina», spiega Filosa, «tutto questo, inevitabilmente, si riflette nella cultura nipponica». La trama di Goldrake è per certi versi tradizionale, l’eterna lotta manichea tra forze del bene e forze del male. Ma ci sono alcuni elementi, come il costante senso di una incombente minaccia, di fine del mondo, estranei alla cultura giapponese. Goldrake non è solo: c’è Godzilla risvegliato e potenziato dalle armi nucleari, c’è Kenshiro che vive in un futuro apocalittico post-atomico, c’è Mazinga Zeta. E con loro, tanti altri. «Tutti personaggi che non avrebbero potuto nascere prima della bomba atomica, perché l’idea di apocalisse, di fine del mondo, nella cultura giapponese non esiste», continua Filosa.
Già, perché se l’idea di fine del mondo è radicata nell’inconscio collettivo occidentale sin dall’inizio del cristianesimo e nei secoli profetizzata, temuta e invocata da filosofi, santi e ciarlatani, in Giappone, prima del 1945, non esisteva. «Nella religione tradizione del Paese, lo shintoismo, non esiste il concetto di fine. Il mondo è popolato da spiriti (kami) che abitano ogni cosa, dalle piante agli animali». «Tutto», prosegue Filosa «è un fluire, un cambiamento costante in cui nessuna energia si disperde». Un panteismo animistico diffuso, che rischiava di perdersi e che invece si ritrova in recenti prodotti culturali del Sol levante, dal film d’animazione La città incantata (2001) di Miyazaki ai Pokémon. Il merito, spiega Filosa «è di Shigeru Mizuki, un fumettista che negli anni ‘60, nel pieno del monopolio culturale americano, ha cercato di recuperare kami, leggende e divinità dell’animismo shintoista».
Già, perché se l’idea di fine del mondo è radicata nell’inconscio collettivo occidentale sin dall’inizio del cristianesimo e nei secoli profetizzata, temuta e invocata da filosofi, santi e ciarlatani, in Giappone, prima del 1945, non esisteva
Ma se è vero che grazie a Mizuki la tradizione shintoista nipponica non si è dispersa, è altrettanto evidente, nella cultura giapponese postbellica, il cortocircuito tra tecnologia e imminente fine del mondo. Un cortocircuito da un lato figlio della bomba atomica e, dall’altro lato, prodotto dall’impressionante avanzamento tecnologico del Giappone di quegli anni. Sotto questo aspetto, però, nel corso del tempo c’è stato un cambiamento. «I robot dei primi decenni del dopoguerra, come Mazinga e Goldrake, erano il simbolo di un archetipo giapponese: il sacrificio di tante persone per il raggiungimento di un obiettivo, come se loro incarnassero e in qualche modo sostituissero il ruolo che, storicamente, era stato dell’imperatore». Il progresso tecnologico del Paese fu travolgente a tal punto che a ispirare le scenografie di Blade Runner non furono le città americane o europee, ma Tokyo. Negli anni ‘90 e 2000, invece, anche nel Sol levante i robot e la tecnologia hanno iniziato a essere visti come strumento di alienazione, di isolamento. «Pensiamo a una serie come Neon genesis evangelion, in cui il padre del protagonista crea robot per difendere il Paese e questo lo porta ad abbandonarlo per anni», conclude Filosa.