La tv italiana? È vecchia e fa schifo (e la colpa è del pubblico e degli intellettuali)

Amici, Ballando, X-Factor: vanno bene i programmi vecchi di 10 o 20 anni, ma le nuove produzioni falliscono. Colpa di autori e dirigenti, che cambiano i conduttori ma loro rimangono sempre gli stessi. E colpa del pubblico, a cui piace tanto il nazional-popolare

Da qualche tempo il destino di ogni nuovo programma televisivo sembra essere lo stesso, a prescindere dalla rete e dal conduttore, come se tutto fosse anch’esso parte di un format sempre uguale. Scena uno. Il programma viene annunciato in pompa magna sui giornali, tra interviste, titoloni e l’eterna promessa di “fare qualcosa di nuovo”. Scena due. Il programma va in onda e gli ascolti si rivelano un bagno di sangue. A nulla servono i tentativi di correggere la rotta in corso d’opera: l’audience continua a scendere, la trasmissione sprofonda di settimana in settimana fino a che una mano pietosa mette fine all’agonia. Scena tre. I responsabili del programma incolpano del fallimento il pubblico, incapace di apprezzare il prodotto proprio perché “nuovo”. Dopodiché viene annunciata una nuova produzione e il ciclo si ripete.

Il nazional-popolare come genere televisivo predominante esiste anche negli Stati Uniti, Paese da cui buona parte di quei programmi proviene per poi essere esportati con successo in tutto il mondo. Eppure, negli Usa c’è anche una cosiddetta “TV di qualità” che, seppur rivolta a un pubblico ristretto, è capace di raggiungere indici di gradimento assai superiori degli omologhi italiani

In effetti, a funzionare in TV sono rimaste solo le corazzate storiche, i vari Amici, Isole, Gieffe, Ballando, X-Factor, roba che ha dieci, venti o trent’anni. Per non parlare degli ascolti bulgari del Festival di Sanremo, a cominciare dall’ultima edizione targata Claudio Baglioni, uno show talmente fresco che avrebbe puzzato di naftalina anche ai tempi di Ceausescu. Un tempo si pensava che il problema fosse Auditel, il sistema di rilevazione degli ascolti: per anni, dal campione di famiglie i cui televisori vengono monitorati e dal quale sono elaborati statisticamente gli ascolti, erano esclusi i single, le coppie non sposate e chiunque non avesse un abbonamento per il telefono fisso. In questo modo, direttori di rete e autori avevano buon gioco, per giustificare i loro fallimenti, ad incolpare a un sistema che, proprio come il Rosatellum in ambito elettorale, era architettato per falsare in partenza la competizione, favorendo un certo tipo di contenuti – quelli rivolti a un pubblico più anziano e tradizionale – e danneggiandone altri – quelli rivolti a un pubblico più giovane e dinamico. Ma questa teoria negli ultimi tempi è stata letteralmente demolita: da una parte, dai cambiamenti apportati da Auditel al proprio campione di riferimento, che benché esteso ed aggiornato non ha portato ad alcun cambiamenti significativo nella ripartizione degli ascolti; dall’altra, dal delirio a cui puntualmente si assiste su Twitter ogni volta che va in onda uno di quei programmi nazional-popolari, che finiscono immancabilmente nei top trend. Snobbissimi intellettuali, abbandonato il tomo di David Foster Wallace sul comodino, danno libero sfogo alle proprie pulsioni proibite, in una gara a chi fa la battuta migliore sulla gaffe di Cannavacciuolo o sul discutibile vestito della Marcuzzi. Certo, c’è sempre la bieca scusa dell’ironia, della visione “tra le virgolette”: ma è una scusa talmente vecchia che ormai non vale nemmeno la pena parlarne.

Solo colpa del pubblico, dunque? Non esattamente. Il nazional-popolare come genere televisivo predominante esiste anche negli Stati Uniti, Paese da cui buona parte di quei programmi proviene per poi essere esportati con successo in tutto il mondo. Eppure, negli Usa c’è anche una cosiddetta “TV di qualità” che, seppur rivolta a un pubblico ristretto, è capace di raggiungere indici di gradimento assai superiori degli omologhi italiani. Quindi o si postula un’inferiorità ontologica dei telespettatori italiani rispetto a quelli americani – tesi abbastanza difficile da sostenere per chiunque abbia fatto un road trip negli Stati Uniti profondi, lontano dalle due coste – oppure, per spiegare la sterminata sequenza di flop, bisogna chiamare in causa anche chi, in Italia, si occupa a vario titolo di televisione. A cominciare, per esempio, da quei dirigenti che ignorano qualunque cosa accada al di fuori del Grande Raccordo Anulare, che non parlano una parola di inglese e che il massimo che riescono ad immaginarsi, quando riflettono sui famosi “nuovi linguaggi”, non è una serie animata tipo “Rick and Morty” ma un remake di “Commesse” con Nancy Brilli. O da quei direttori di rete che, completamente esautorati di ogni potere dai vari centri di costo hanno come unica linea editoriale la salvezza delle proprie terga, rifiutandosi di prendere un rischio che sia uno. Si, certo, i programmi hanno titoli e conduttori nuovi: ma chi scrive sono sempre i soliti, e l’effetto è lo stesso dell’oste che prende del vino vecchio e lo infila in una bottiglia nuova, sperando che il cliente sia talmente rincoglionito da non accorgersene. Per non parlare della situazione della maggior parte delle maestranze, che lavorando con contratti a progetto sono obbligate a lavorare come bestie da soma, senza uno straccio di diritto o tutela sindacale, con il paradosso di sentirsi dire “beato te che lavori in TV”, magari dopo un turno di straordinari non pagato.

Altro che “non ci sono soldi!”, come sente ripetere di continuo chiunque lavori nel settore: conduttori e agenti degli stessi continuano a realizzare profitti inimmaginabili, spremendo fino all’ultima goccia un sistema che poi si ritrova privo delle risorse necessarie a coprire i costi necessari a mettere in piedi dei contenuti di qualità di livello accettabile

Un’industria allo sbando, insomma, dove manca completamente il rispetto della professionalità ad eccezione di quella dei conduttori: e infatti il problema non è l’assenza di risorse ma il modo in cui tali risorse vengono spese. Altro che “non ci sono soldi!”, come sente ripetere di continuo chiunque lavori nel settore: conduttori e agenti degli stessi continuano a realizzare profitti inimmaginabili, spremendo fino all’ultima goccia un sistema che poi si ritrova privo delle risorse necessarie a coprire i costi necessari a mettere in piedi dei contenuti di qualità di livello accettabile. Così si continua a cambiare conduttore, sperando di pescare il jolly: il blogger un po’ sfigato, il cantautore narcisista, l’editorialista con la faccia da bonaccione, il panettiere bresciano diventato scrittore; ma il problema è alla radice e risiede in chi i programmi li pensa, li finanzia, li realizza. Ed ecco il paradosso: per affrontare il problema alla radice, bisognerebbe che prima provenisse un orientamento chiaro in questo senso da parte del pubblico; orientamento che tuttavia non arriva, perché al pubblico italiano, sia quello anziano e passivo che quello giovane e attivo, va benissimo la TV mainstream dei dinosauri. “Last man in Aleppo”, per fare un semplice esempio tra i tanti, è un documentario prodotto dal servizio pubblico della TV danese, vincitore del Sundance Film Festival 2017 e candidato quest’anno agli Oscar. È un film che spiega meglio di un miliardo di egotici vip con la bocca tappata la situazione siriana, di enorme importanza culturale e storica. È costato centocinquantamila dollari, più o meno la metà del compenso a puntata del conduttore di Sanremo: se in Italia cose del genere non sono nemmeno ipotizzabili è perché Claudio Baglioni, Don Matteo, Milly Carlucci non sono il retaggio di tempi passati ma la forma definitiva del nostro presente, l’unica rappresentazione che siamo in grado di immaginare. Non a caso, le prime tre produzioni originali di Netflix in Italia sono state “Suburra”, un documentario sulla Juventus e il prossimo “Baby”, una serie dedicata alle prostitute minorenni romane. Mafia, calcio e belle gnocche quindi, una Trinità portatrice di un’italianità a tal punto iperbolica da risultare stereotipata, ma evidentemente in perfetto accordo con gli studi di marketing in mano alla multinazionale americana sui gusti e le attese del pubblico del Belpaese.

Che si tratti di politica o di televisione la storia è la stessa: domanda e offerta si fondano in uno Yin e Yang in cui è impossibile separare le vittime dai carnefici, la causa dall’effetto. La traiettoria, insomma, continua a non deviare di un millimetro rispetto a quella raccontata nel Gattopardo, cambiare tutto per non cambiare nulla. Una volta la famiglia italiana si radunava attorno alla TV per guardare Sanremo e si faceva a gara a chi faceva il commento più divertente; oggi si fa la stessa cosa, solo che ognuno rimane in camera sua, attaccato al cellulare, affannandosi a scrivere in tempo reale il tweet sagace con cui prendere tanti cuoricini. Altro che desiderio di novità o ansia di cambiamento. Provate a parlare di proposte concrete per tagliare la spesa pubblica e diminuire il debito pubblico o a sperimentare, come conduttore di un late-show all’americana, un comico davvero di rottura come Saverio Raimondo al posto dell’innocuo Alessandro Cattelan. Nel primo caso vi verrebbero a prendere coi forconi gli elettori, nel secondo gli investitori pubblicitari, a fronte di percentuali d’ascolto ancora più basse di quelle di LeU. No, non moriremo Democristiani: moriremo davanti alla TV guardando Claudio Baglioni, e sarà molto peggio.

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