Lo diceva anche Nietzsche: il talento non è sinonimo di genialità (al contrario di perseveranza!)

Dare del "genio" a qualcuno è un atto di estrema comodità. È più facile dire che qualcuno ha raggiunto il successo per via di un talento naturale, piuttosto che pensare ai sacrifici fatti per raggiungerlo

Quello lì è un fottuto genio. È un’app geniale! “Sei un genio!” Quante volte, nella vita di tutti i giorni e con la leggerezza di un commento o di un post su Facebook, usiamo naturalmente la categoria del genio per classificare il successo di una persona, che si tratti di un’idea di impresa, di un successo sportivo o anche solo di una battuta esilarante?

Ho sempre una sorta di timore a usare la parola genio. Personalmente, mi sono imposto una regola bianco – nero piuttosto feroce, per cui “non si può dire genio se la persona non è morta”. Come a dire che, fino a una settimana fa, era discutibilmente fuori dalla mia classifica Stephen Hawking, così come non vi compare e spero non vi comparirà a lungo Elon Musk. Il fatto è che preferisco andare per difetto, proprio per questa specie di soggezione.

In generale, il fatto di classificare una persona come geniale è legata a una questione di grande interesse, non solo nella letteratura scientifica ma anche, e soprattutto, nel mondo del business: quanto conta, insomma, il talento nei risultati che una persona ottiene, e quanto, invece, la fatica per ottenerli? In un certo senso, il genio ci rilassa. Il che significa, spiegando un po’ meglio, che la tendenza degli esseri umani a raccontarsi una storia quando provano a mettere in relazione due eventi è in atto anche in questo caso.

Ci piace riconoscere il genio perché ci fa comodo. È il fascino irresistibile del mistero e di una specie di magia laica che, di fronte all’eccellenza, fa scattare in noi la spiegazione: “Eh, ma quello è un talento naturale! Quello lì è un genio”. Nel bellissimo libro Grit di Angela Duckworth, viene raccontato un episodio interessante.

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