I Cinque Stelle hanno scoperto il mondo reale. Meglio tardi che mai. Le ultime elezioni hanno avuto un merito indiscutibile: messe da parte le velleità rivoluzionarie, per i grillini è arrivato il momento della concretezza. La metamorfosi pentastellata ha subìto una netta accelerazione nelle ultime settimane. Un tempo i vertici del movimento denunciavano pubblicamente gli odiosi inciuci di Palazzo. Assicuravano che mai avrebbero stretto alleanze con i partiti della vecchia politica. Oggi che un accordo con la Lega o il Partito democratico è diventato obbligatorio per entrare a Palazzo Chigi, la prospettiva è cambiata radicalmente. L’isolamento un po’ snob degli ultimi anni è un lontano ricordo. L’intesa con gli avversari è un obiettivo da perseguire a tutti i costi. Al bando gli estremismi: sfumate le posizioni critiche su Europa e moneta unica, ormai il M5S punta ad accreditarsi come forza politica rassicurante. E così è cambiato anche il rapporto con i sindacati. Fino a poco tempo fa erano considerati appendici della Casta, insostenibili sacche di privilegio. Ultimamente, invece, sono diventati un interlocutore privilegiato. Il tempo passa. Anche le aule parlamentari, una volta guardate con disprezzo, sembrano avere assunto una diversa connotazione. Non è un caso se la rigida regola dei due mandati – che vincolava ogni eletto pentastellato a un breve periodo di servizio nelle istituzioni – potrebbe essere presto superata. Raccontano che in questi giorni sarebbe allo studio una deroga al principio. Un passaggio necessario per garantire ai big del movimento – a partire da Luigi Di Maio – un’altra candidatura in caso di nuove elezioni.
Si sa, i tempi cambiano. Le sopravvenute responsabilità impongono un nuovo approccio all’agenda politica. Dismessi i panni da giacobini, ecco spuntare il doppiopetto democristiano. Palazzo Chigi val bene un cambio di passo: un’inversione di marcia sui temi e nei toni. Intanto il movimento antitistema diventa un partito a tutti gli effetti. Un esempio? Era il 2013 quando Beppe Grillo, nei suoi comizi, auspicava la scomparsa dei sindacati. «Eliminiamoli, sono vecchi come i partiti». Tesi sostenuta più recentemente anche dall’attuale leader Di Maio. «O si autoriformano oppure quando saremo al governo ci pensiamo noi». Pochi mesi fa, in un lungo intervento, il capo politico grillino rincarava la dose: «Guardiamo alla realtà dei fatti: negli anni i sindacati si sono mostrati più vicini alla politica che agli interessi dei lavoratori, tanto da ereditarne i peggiori vizi e privilegi. La nostra non vuole essere una generalizzazione, ma di stipendi d’oro ne abbiamo visti fin troppi». Una posizione legittima, forse anche condivisibile, che aveva suscitato la reazione sdegnata di tanti sindacalisti, a partire dalla leader Cgil Susanna Camusso. Adesso proprio lei è la protagonista di un’inattesa sintonia con i Cinque Stelle. Ieri una delegazione della Cgil, guidata dalla segretaria, è stata ricevuta dal capogruppo pentastellato al senato Danilo Toninelli. Un incontro per discutere la Carta dei diritti universali del lavoro, la proposta di legge di iniziativa popolare nata su impulso del sindacato e in attesa di essere esaminata dalle Camere. Del resto anche Roberto Fico, neo presidente grillino di Montecitorio, già all’indomani della sua elezione aveva assicurato di voler assicurare la massima attenzione al documento della Cgil.
I Cinque Stelle hanno scoperto il mondo reale. Meglio tardi che mai. Le ultime elezioni hanno avuto un merito indiscutibile: messe da parte le velleità rivoluzionarie, per i grillini è arrivato il momento della concretezza. I tempi cambiano. Le sopravvenute responsabilità impongono un nuovo approccio all’agenda politica. Dismessi i panni da giacobini, ecco spuntare il doppiopetto democristiano
La rivoluzione finisce in un cassetto. Così le utopie degli inizi. Non a caso Beppe Grillo, un tempo protagonista assoluto della scena e punto di riferimento politico dei Cinque Stelle, oggi ha deciso di fare un passo indietro. E con lui Alessandro Di Battista, leader di lotta del movimento. Ipocrisia o semplice presa d’atto della realtà? I maligni considerano la svolta grillina una forma di incoerenza. Ma forse è solo la normale scoperta che così va il mondo. Per fare politica è necessario sporcarsi le mani e cercare il confronto con gli altri. Lo sa bene Luigi Di Maio. Per anni i Cinque Stelle hanno denunciato i tentativi di inciucio tra le altre forze politiche. Oggi il candidato premier grillino è alla disperata ricerca di un’intesa con i suoi avversari. Lega o Partito democratico, poco cambia. Per andare al Palazzo Chigi il leader pentastellato è disposto ad allearsi con entrambi. Anche a poche ore dal secondo giro di consultazioni al Quirinale proseguono le difficili trattative con il segretario del Carroccio Matteo Salvini e con i vertici dem. «Voglio solo capire se ci sono le condizioni per un governo del cambiamento», spiegava ieri Di Maio in un’intervista al Fatto. Il dialogo con gli altri non è più un tabù. «Io mi sto rivolgendo ai segretari e i nostri capigruppo parlano con gli altri capigruppo. Devo dire che sono tutte persone con cui si può parlare, c’è dialogo».
La nuova stagione passa anche da improvvise giravolte. L’ultimo ripensamento riguarda il presidente Roberto Fico. Cinque anni fa, intransigente grillino appena eletto alla Camera, si era scagliato contro la deroga al regolamento che aveva consentito di costituire il gruppo di Fratelli di Italia, privo del numero minimo di deputati. Una decisione politica che avrebbe gravato sulle casse di Montecitorio per quasi 400 mila euro. «Una spesa davvero inutile e assurda, degna della Casta», aveva tuonato allora il pentastellato. I tempi cambiano. Un paio di giorni fa Fico ha deciso di autorizzare con apposita dispensa la nascita del gruppo di Liberi e Uguali, costituto da solo quattordici deputati (ne servirebbero venti). Un cambio di posizione che non è passato inosservato. Molti esponenti del Pd hanno denunciato la decisione del presidente, ricordando ironicamente le accuse di cinque anni fa. Ma quella, si sa, era un’altra epoca.