Cultural StereotypePost Punk: i sei anni che sconvolsero il mondo della musica

Torna in libreria “Post Punk. 1978-1984” (minimum fax), il libro con cui Simon Reynolds ha raccontato uno dei più straordinari momenti che il pop ricordi

Uno dei problemi fondamentali della musica pop contemporanea quella principalmente fatta da bianchi è la sua quasi totale non aderenza allo spirito del tempo. Escludendo numerose e felici eccezioni (ad esempio St. Vincent e Bon Iver), siamo circondati da canzoni che non raccontano nulla, non dicono niente e suonano tutte allo stesso modo. Dal mainstream all’underground passando per qualunque-cosa-intendiate-come-Indie, sembriamo condannati al nostro stesso bisogno di consolazione, alla stanca ripetizione dell’identico e all’ossessiva ricerca di una nostalgia in cui sentirsi a proprio agio nell’attesa della rassegnazione definitiva.

Forse se c’è un insegnamento che possiamo trarre dalla lettura delle oltre 750 pagine di Post Punk. 1978-1984, in cui Simon Reynolds (tradotto da Michele Piumini) sviscera in lungo e in largo uno dei più straordinari momenti della musica e che minimum fax riporta finalmente in libreria, è proprio questo: non compiacersi di quello che si è raggiunto, cercare sempre una strada alternativa e spostare sempre più in là i confini di quello che si fa. Post infatti qui non significa “dopo” il punk (per quanto quel movimento non ci faccia una bella figura), ma “oltre”. I Sex Pistols non sono stati l’inizio di qualcosa, ma la fine del vecchio mondo. Uscito Never Mind The Bollocks è finito tutto. Anno zero. Non a caso il libro parte proprio da qui, da John Lydon/Johnny Rotten che stufo di essere una marionetta nei confronti dell’ortodossa ricerca dello shock di Malcolm McLaren (che musicalmente si traduce in un rudimentale rock’n’roll nemmeno troppo sconvolgente su disco), lascia i Pistols per fondare i Public Image Ltd. per provare a fare le cose in modo totalmente diverso e lontano da qualsiasi definizione.

Post infatti qui non significa “dopo” il punk (per quanto quel movimento non ci faccia una bella figura), ma “oltre”. I Sex Pistols non sono stati l’inizio di qualcosa, ma la fine del vecchio mondo. Uscito Never Mind The Bollocks è finito tutto. Anno zero

Il Post Punk non è un genere o un movimento. E semmai un “momento”, durato meno di un decennio, in cui la musica è riuscita a diventare l’autentico racconto di quel particolare presente catalizzando quello che Reynolds descrive come un senso di urgenza. Nel libro, infatti, si racconta come tutto l’universo musicale venne investito da un febbrile anelito di espansione. C’è di tutto, anche qualche nome che sulle prime può sembrare c’entrare poco: la new wave di Pere Ubu, Devo, Magazine e Talking Heads; gli immancabili Joy Division e Echo & the Bunnymen; l’avanguardia newyorchese di James Chance e Lydia Lunch; il pop sintetico di Human League, Frankie Goes To Hollywood e gli Heaven 17; i suoni industriali di Einstürzende Neubauten, This Heat e Throbbing Gristle; fino a campioni d’incasso come Simple Minds, Ultravox, Depeche Mode e Culture Club (e ne cito solo una piccola parte: c’è davvero di tutto). Ansie generazionali e nichilismo esistenziale; voglia di ricerca artistica totale e anelito di distruzione degli steccati tra convenzioni; estrema e assoluta libertà musicale (mischiare la musica bianca con la musica nera, ragionare sulle ritmiche irregolari, suonare in modo differente gli strumenti, pensare una cosa e semplicemente farla) partendo proprio dalla considerazione amara che la rivoluzione è fallita, i giochi sono già stati fatti, hanno vinto i cattivi e allora tanto vale cercare strade alternative e diverse.

Reynolds descrive il Post Punk come un momento molto “fisico”, al tempo stesso avanguardista e primitivo, di ricerca quasi teorica e assieme di liberazione fisica, uno shock autentico basato sull’assalto sonoro, la libertà sessuale, la droga e la perversione che si intercettava in città (sopratutto Londra e New York, descritte come weimariane) molto diverse dalle “global city” gentrificate che abbiamo imparato a conoscere nei nostri viaggi. Fa ridere pensare che proprio queste band oggi siano quasi tutte riunite, facciano concerti sold-out davanti a gente che nel 1984 non era nemmeno nata e che facciano parte a modo loro del pantheon della storia della musica. Anche loro sacralizzati e musealizzati e messi assieme a quei pezzi da Novanta cui volevano rappresentare un vero contraltare perturbante. Anche loro vittime di quella che proprio Simon Reynolds qualche anno più tardi ha chiamato retromania: l’incapacità di immaginare il futuro. Qui però l’amarezza è doppia perché molti protagonisti di quella stagione un futuro l’avevano, in qualche modo, immaginato proprio perché avevano la sensazione che tutto fosse possibile e che non ci fosse poi molto da perdere socialmente, economicamente, politicamente (del resto il periodo del Post Punk ha coinciso con la crisi della sinistra anglo-americana e l’emergere delle destre liberiste e conservatrici di Reagan e Thatcher).

Ansie generazionali e nichilismo esistenziale; voglia di ricerca artistica totale e anelito di distruzione degli steccati tra convenzioni; estrema e assoluta libertà musicale partendo proprio considerazione amara che la rivoluzione è fallita, i giochi sono già stati fatti, hanno vinto i cattivi e allora tanto vale cercare strade alternative e diverse

Post Punk. 1978-1984 racconta non solo un momento straordinario di produzioni musicali e artistiche, ma anche come si possono trovare risposte a domande come “e adesso che facciamo”: se il punk voleva distruggere tutto, dall’altra parte qualcosa doveva pur nascere. L’eredità è una quantità di dischi straordinari che ancora oggi mantengono intatti tutti gli aspetti che li avevano resi così speciali e capaci di catturare lo spirito del tempo. Il modo migliore per celebrarli, forse, non è andare in un museo o a un concerto-reunion dei Gang of Four o dei Buzzcocks (l’ho fatto, ndr), ma prenderli ad esempio e non imitarli.

X