Cultural StereotypeArte, politica, capitalismo, sesso, la “Città sola” di Olivia Laing

“Città sola” (Il Saggiatore) di Olivia Laing è uno dei libri più interessanti degli ultimi anni per cercare di comprendere il rapporto tra solitudine, arte e metropoli. Ne abbiamo parlato con l'autrice

Anno dopo anno, la popolazione mondiale si sta spostando sempre di più verso le città. Conglomerati tentacolari e infiniti in cui le diversità culturali sembrano però appianarsi sempre di più per colpa delle disuguaglianze, dell’intolleranza e dell’inarrestabile processo di gentrification globale che porta le megalopoli di ogni latitudine ad assomigliarsi sempre di più tra di loro. Un panorama confortante, ma al tempo stesso alienante, cui ogni persona cerca di rispondere con gli strumenti che ha a disposizione cercando antidoti contro la solitudine. Città sola (Il Saggiatore), il libro con cui Olivia Laing si è guadagnata un posto rilevante nel dibattito culturale degli ultimi anni, indaga proprio il rapporto tra solitudine e città, come le situazioni sociali obbligate acuiscano quel senso di alienazione, e di come questo influisca sul processo e l’espressione artistica. Laing sviscera il tema partendo dalla propria esperienza personale — l’improvvisa sensazione di solitudine provata a New York dopo la fine di una storia d’amore — mettendola in relazione alle vite solitarie di artisti che hanno camminato sugli stessi marciapiedi: da Edward Hopper a Andy Warhol; da Klaus Nomi a Henry Darger. Era una città diversa, certo. Più sporca, pericolosa, per certi versi più autentica e che permetteva una maggiore libertà. Tra queste libertà, anche, la paradossale libertà di essere soli.

«Ci sono due tipi di solitudine. La solitudine di chi sceglie l’isolamento, e quella di chi lo subisce. Nella città il confine diventa molto sottile perché anno dopo anno si assiste alla trasformazione della città in un luogo costruito per chi può permettersi di scegliere», comincia a raccontare Laing iniziando subito a definire il suo lavoro come “politico”. La solitudine è anche una questione di classe sociale: «La città è un dispositivo per ricchi, e chi non se la può permettere viene spinto via. L’aumento vertiginoso degli affitti in ogni quartiere oppure le panchine su cui nessuno può stendersi… sono misure contro la povertà. Se non ce la fai, non hai più nessun paracadute. Se ce la fai, puoi anche concederti il lusso di stare da solo: chi sceglie l’isolamento ha un ruolo attivo nella definizione della solitudine. Sia la propria, che quella degli altri. Io credo che ogni azione che vada contro alle altre persone causi solitudine».

«Le persone di cui ho scritto hanno vissuto a New York e se ne sono allontanate dopo esperienze di solitudine alienanti in condizioni di povertà assoluta. Stavano fuori dalle strutture sociali ma volevano comunque “dire qualcosa”»


Olivia Laing

Gli artisti raccontati in Città sola sono dei drop-out. Al giorno d’oggi sarebbero considerati dei freak e secondo l’autrice faticherebbero a imporsi nel mercato dell’arte nonostante siano stati capaci di usare la propria solitudine per sperimentare e trovare forme di espressione molto personali: «C’è una tensione nella solitudine. È quella spinta che ti porta a comunicare, a entrare in contatto con un’altra persona. Se non ci riesci con i rapporti, devi creare qualcosa che ti permetta di stabilire una connessione». In The Ballad of Sexual Dependency di Nan Golding o Rimbaud di David Wojnarowicz si percepisce proprio l’indagine di quella particolare tensione in cui il personale, oltre che diventare politico, riesce a raccontare uno stato d’animo collettivo restando ai margini dei sistemi (sia cittadini, che artistici): «Le persone di cui ho scritto hanno vissuto a New York e se ne sono allontanate dopo esperienze di solitudine alienanti in condizioni di povertà assoluta. Stavano fuori dalle strutture sociali ma volevano comunque “dire qualcosa”. Il progetto Rimbaud è il grido d’aiuto di una persona che sta cercando di costruirsi a suo modo una sua personalità e un suo albero familiare».

Dalla richiesta d’aiuto di una singola persona ai metodi di auto-espressione, Città sola offre anche degli spunti per riflettere sulla contemporaneità. Laing racconta di una realtà pre-Internet ma, soprattutto, una realtà in cui non solo l’arte ma anche il sesso era visto come un mezzo di ricerca di un’autentica espressione del sé e un antidoto contro la solitudine. Il sesso di Città sola è molto fisico, molto duro e anche molto weird. «È un sesso molto desiderante. New York non è sempre stata la città lussuosa che abbiamo conosciuto e chi voleva fare esperienze lì poteva trovare tutto con relativa facilità». Il paradosso di questi tempi, a pensarci, potrebbe essere questo: siamo circondati da sesso — dai siti porno alle app di appuntamento passando per le pratiche di sexting — ma è come se lo avessimo desessualizzato. «Prendi Tinder: è un catalogo di bellezza. Non c’è la ricerca di un’espressività capace di rendere le persone tutte uguali. Il sesso che ho raccontato nel libro è molto democratico, invece. Un sesso che non ha paura di desiderare». È come se fosse al tempo stesso più facile e più difficile? «È il capitalismo applicato all’amore!».

Nonostante si viva una quotidianità fatta di continui contatti attraverso i social network, la solitudine non è stata sconfitta. Questi surrogati in qualche modo acuiscono, paradossalmente, il senso di solitudine: «Quando sei sola a letto che ti scrivi con un amico ad un certo punto di rendi conto di essere sola a letto con il tuo smartphone». Potrebbe sembrare un luogo comune, ma è un fatto: ed è in questo passaggio della consapevolezza che si gioca la partita. Un teorico del complotto potrebbe affermare che il capitalismo e la politica favoriscono il nostro stare soli: il primo, perché così alimenta il nostro bisogno di consumi che compensano la nostra solitudine; la seconda, perché se siamo soli siamo spaventati e quindi più esposti alla propaganda. «In effetti sembriamo dei complottisti, ma c’è una relazione tra l’isolamento e l’emersione globale dell’estrema destra. Essere immersi nella diversità aiuta a essere più aperti e tolleranti. L’isolamento, l’atomizzazione, l’accontentarsi di surrogati della comunicazione ci hanno disabituato a renderci conto di avere accanto a noi delle persone “diverse da noi”».

«La solitudine è inutile e non funzionale. Tutto è stato messo a valore dal capitalismo. Se qualcosa è inutile, non serve»


Olivia Laing

Eppure la città dovrebbe essere l’esatto opposto. Dovrebbe essere il luogo dell’innovazione sociale e del progresso anche culturale della società. «Io infatti credo ancora molto alle potenzialità della città. Certo, i movimenti di estrema destra che stanno spuntando un po’ ovunque, anche qui in Italia, preoccupano e preoccupa ancora di più vedere la sinistra non avere risposte e addirittura andare contro se stessa opponendosi, ad esempio, all’immigrazione. Ma il mondo multi-culturale in cui stiamo vivendo è inevitabile. Dobbiamo riabituarci anche perché se si continua a costruire un ambiente ostile, questo non sarà ostile solo per i poveri e gli immigrati, ma per tutti». In Città sola l’arte è una scappatoia. Un luogo libero e democratico che permetteva a tutti di cercare una propria espressività. Ma in questo contesto, è ancora possibile? «Non credo che l’arte possa più educare alla diversità. Non voglio essere nostalgica, ma il contesto è molto cambiato e ormai temo l’arte sia schiava del suo rapporto con il denaro e con l’esclusività. L’arte non solo è molto cara, ma quei pochi che se la possono permettere se la tengono per sé. È come se fosse fatto tutto per una sola persona».

E allora, come se ne esce? «Il mondo in cui viviamo ci fa sentire soli perché facciamo lavori che ci fanno sentire inutili e rimpiazzabili… addirittura rimpiazzabili dalle macchine». In Realismo capitalista e Ghosts of my Life Mark Fisher — per Olivia Laing, colui che «ha raccontato meglio di tutti gli altri il legame tra solitudine, depressione e struttura sociale» — ha raccontato come la società contemporanea sia costruita attorno al controllo derivato da depressione e solitudine. Città sola si apre proprio con l’assunto di partenza per cui è necessario considerare la solitudine una vera e propria malattia. Ma in questo forse, c’è anche la soluzione. Forse il punto è proprio questo: non bisogna uscirne. «La solitudine è inutile e non funzionale. Tutto è stato messo a valore dal capitalismo. Se qualcosa è inutile, non serve». Forse che la solitudine, infine, e la storia degli artisti di Città sola offre qualche spunto a riguardo (anche se si tratta di storie tragiche) possa essere il nostro atto di resistenza?

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