Una piazza polverosa e desolata, dei portici sgarrupati, quattro negozi in croce gestiti da commercianti imbrutiti, nessun segno della presenza dell’autorità, un energumeno dalla violenza facile che scorrazza in sella al suo destriero e fa il bello e il cattivo tempo con chiunque, indisturbato e indisturbabile, come se fosse il padrone del villaggio. E poi, nel bel mezzo di tutta questa miseria, tra i più vessati dall’energumeno, un uomo minuto, tranquillo, amorevole verso la figlia e verso le bestie degli altri, di cui per professione si prende cura.
Se il destriero dell’energumeno non fosse in realtà una scintillante e rumorosa moto rossa e le bestie degli altri non fossero cani da toelettare, il punto di partenza di Dogman, il nuovo film che il regista Matteo Garrone ha portato al Festival di Cannes — per ora con ottimo riscontro in sala e tate speranze di successo finale —, sarebbe l’inizio di un classico film western, uno di quelli senza indiani, però, uno di quelli che parlano di miseria, di violenza, di soprusi e di uomini-bestie senza ideali né speranze, abbandonati alla propria miseria e costretti a farsi giustizia da soli. Un western di quelli belli, insomma.
Eppure, anche se la terra polverosa su cui trascinano i passi Marcello il Canaro, l’ex pugile Simoncino e gli altri squallidi protagonisti di questo film di Garrone non è quella del deserto giallo della California, ma quella sporca e umida di pioggia della periferia romana, e nonostante l’oro da svaligiare non sia quello fuso in scintillanti lingotti custoditi dalla banca di El Paso, ma quello di risulta di un miserabile Compro Oro, questo Dogman di Matteo Garrone racconta una realtà molto più vicina e ancora più selvaggia di quel West cinematografico in cui sono cresciuti i nostri genitori, e per questo ancora più terribile e desolante.
In molti, andando a vedere questo film, avranno in mente la cronaca da cui è stato ispirato, il celebre delitto del Canaro, uno dei più efferati e terrificanti della storia criminale italiana, accaduto in via della Magliana il 18 febbraio del 1988. Ma la grandezza del film di Garrone sta proprio nel suo riuscire a divincolarsene, prendendo le distanze dalla realtà sia, nominalmente, cambiando i nomi dei protagonisti, sia, nella sostanza del racconto, scegliendo di non indugiare sulla violenza fisica, sulla brutalità e sull’efferatezza dell’omicidio, bensì sulla violenza la brutalità e l’efferatezza della miseria umana, una miseria capace di trasformare l’amore di un padre nella cieca cattiveria del peggiore degli aguzzini.
In una delle scene dell’ultima parte del film, mentre la rabbia sopita del canaro esplode e si scaglia contro la sua vittima chiusa in una gabbia, Garrone — che sceglie di stare personalmente dietro la macchina da presa — volge il suo sguardo dall’altra parte è per non vedere. Non è per nascondere la violenza agli occhi degli spettatori, ma per renderla ancora più terribile. Lo sguardo di Garrone infatti va a posarsi sui volti dei cani chiusi nelle gabbie del canaro, cani che, con una sorta di placido disinteresse, osservano la scena come se fossero gli spettatori annoiati di un triste spettacolo di gladiatori poveracci.
Ecco, in un sol colpo, in pochi secondi e con un solo movimento di macchina, appare chiaro anche a chi dava per scontato che l’interesse di Garrone fosse per la nuda cronaca e per la violenza in sé stessa, che il centro di questo film sta da un’altra parte, nel generale e non nel particolare, ed è molto più esteso di una misera storia di guerra tra poveracci. Perché come ha scritto Garrone stesso nelle sue note di regia di questo film: «seppur attraverso una storia estrema, ci mette di fronte a qualcosa che ci riguarda tutti: le conseguenze delle scelte che facciamo quotidianamente per sopravvivere, dei sì che diciamo e ci portano a non poter più dire di no, dello scarto tra chi siamo e chi pensiamo di essere». E tutto questo non ha soltanto il colore, la forma e la miseria di uno squallido quartiere periferico di Roma, ha anche un volto, quello di Marcello Fonte, l’attore che interpreta il canaro, che, secondo Garrone “ha un volto antico che sembra arrivare da un’Italia che sta scomparendo”.
Niente di più vero. L’interpretazione di Marcello Fonte è meravigliosa, così come il suo volto, dolce e insieme indurito dalla vita, un volto che ricorda sì gli italiani di una volta, di quei tempi in cui, quando giocava la nazionale di calcio e la camera inquadrava i volti dei giocatori durante l’inno, sugli schermi al posto di modelli strapagati dai fisici perfetti e dai volti da consumati attori di Hollywood, vedevamo, come in uno specchio, le facce di gente semplice, povera e disgraziata.