Grosso guaio in Medio Oriente, ora l’America vuol fare la guerra all’Iran (insieme a Israele e ai Sauditi)

Obama cercava un bilanciamento dei poteri in Medio Oriente. Trump (o meglio, il Pentagono) torna all’atteggiamento tradizonale americano: amicizia con i Sauditi e Israele, contrasto duro all’Iran. E la situazione non promette niente di buono

MANDEL NGAN / AFP

L’epoca della pacificazione con l’Iran è finita. Una nuova fase, pericolosamente bellicosa, è iniziata e va peggiorando. Israele e l’Arabia Saudita, i grandi delusi del nuclear deal con Teheran voluto da Obama, stanno avendo la loro rivincita con Trump alla Casa Bianca. Quell’accordo, insieme a una serie di “fortunate” (per l’Iran) contingenze – come il fallimento delle Primavere arabe e l’emersione del nemico perfetto (sunnita) dello Stato Islamico -, aveva portato a una significativa espansione dell’area di influenza iraniana.
Il “corridoio sciita” va ora dalle estremità orientali dell’Iran fino al Mediterraneo, passando per Iraq, Siria e Libano, e altre propaggini – in Yemen come in Afghanistan o in Bahrein – completano questo lato della scacchiera.
Sul fronte opposto i Sauditi hanno visto indebolire o crollare alcuni dei propri punti d’appoggio (la dittatura sunnita di Saddam Hussein in Iraq già nel 2003, poi vari regimi travolti dalle Primavere arabe dopo il 2011, ora il Libano sempre più condizionato da Hezbollah) e non sono riusciti a restituire il colpo sottraendo a Teheran la pedina siriana. Il rafforzamento di Teheran è risultato tanto indigesto per la monarchia wahabita quanto per lo storico alleato dell’Occidente in Medio Oriente: Israele. E adesso, cambiato presidente negli Usa e tornata a prevalere la linea del Pentagono, si lavora per disfare quello che è stato fatto e per riportare la situazione al precedente status quo, con l’Iran isolato internazionalmente e gli storici alleati degli Usa nella regione – Tel Aviv e Riad – “contenti” della linea politica della Casa Bianca.

Gli assi di questo tentativo di, almeno parziale, restaurazione degli equilibri precedenti sono due: quello diplomatico, con cui si vorrebbe appunto “rivedere” (o meglio, stracciare) l’accordo sul nucleare, e quello tattico-militare, che sta portando Israele a colpire ripetutamente le postazioni iraniane e di Hezbollah in Siria, e non solo. Per ora sembra funzionare meglio il secondo. Sul primo infatti il trio Usa-Israele-Arabia Saudita si scontra con l’opposizione, per una volta sufficientemente compatta, dell’Unione europea (oltre che della Russia).
L’Europa continua infatti a valutare positivamente l’accordo sul nucleare, considerate le ricadute economiche di questo e soprattutto i giudizi positivi degli ispettori della AIEA (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica), ribaditi ancora nelle ultimissime ore. Allora ecco che si preferisce insistere sul secondo asse, quello militare. Qui infatti gli Stati europei sono più divisi. Da un lato Francia e l’Inghilterra – storicamente più vicine ai Saud e meno all’Iran – sembrano ansiose di guadagnare spazio di manovra in quella regione, partecipando agli strike punitivi decisi da Trump e inviando anche propri uomini sul terreno (i francesi nel Kurdistan, a Manbij, gli inglesi al confine con la Giordania). Dall’altro Italia e Germania – specularmente, più vicine all’Iran che a Riad – non vogliono essere coinvolte e invitano alla calma.
Il Cremlino poi sembra non troppo dispiaciuto degli interventi mirati di Israele contro obiettivi in Siria collegabili all’asse sciita: Mosca e Teheran sono infatti concorrenti, seppur alleate, e Putin non sembra vedere di cattivo occhio un contenimento dell’influenza iraniana.

Una nuova fase, pericolosamente bellicosa, è iniziata e va peggiorando. Israele e l’Arabia Saudita, i grandi delusi del nuclear deal con Teheran voluto da Obama, stanno avendo la loro rivincita con Trump alla Casa Bianca

Arriviamo così agli sviluppi degli ultimi giorni: l’asse diplomatico è stato surriscaldato dalla conferenza stampa di Netanyahu, che paventa un rischio nucleare iraniano e accusa Teheran di avere un programma segreto (il che è piuttosto ironico, considerato che l’arsenale nucleare israeliano è figlio esattamente di un programma segreto degli anni ’50 e ‘60, tenuto nascosto anche ai propri alleati).
Il tutto con l’appoggio della Casa Bianca, ribadito dal neo-Segretario di Stato (ed ex direttore della Cia) Mike Pompeo, in visita nello Stato ebraico. Anche l’asse militare è molto attivo: poche ore fa è stato registrato un attacco missilistico – ancora senza padri, ma probabilmente riconducibile a Israele – contro postazioni siriano-iraniane a Hama e Aleppo che avrebbe causato una quarantina di morti. Per ora l’Iran non sembra intenzionato a reagire, anzi emerge una certa tendenza a minimizzare. Sul fronte diplomatico c’è infatti la speranza che la linea dei “falchi” americano-israeliano-sauditi non riesca a sfondare, e che l’accordo sul nucleare resti in piedi. O, forse, Teheran ritiene non abbia senso al momento dare ai propri avversari alcun pretesto reagendo in modo scomposto. Sul fronte militare c’è poi la speranza che la Russia tra non molto fornisca al governo siriano i sistemi di contraerea S-400, un tipo di armamenti avanzati che dovrebbero ridurre grandemente le possibilità per Israele di colpire bersagli, anche iraniani, nel territorio siriano (ad oggi questi sistemi, pur già presenti in Siria, li controlla esclusivamente Mosca, che come detto ha finora lasciato fare entro certi limiti a Tel Aviv).

Ma se il piano inclinato al momento sembra ancora favorire Teheran, per cui i suoi avversari devono combattere “in salita” per invertire il momento della situazione, il quadro potrebbe cambiare anche repentinamente nel prossimo futuro, se gli Usa decidessero di passare definitivamente a un atteggiamento più ostile nei confronti dell’Iran.
Uno scenario “iracheno”, per cui il sospetto possesso di armi di distruzione di massa porterebbe a un intervento armato americano su larga scala contro la Repubblica Islamica, sembra al momento altamente improbabile. Ma il rischio invece di strike mirati, stavolta in territorio iraniano e non siriano, non si può escludere. Così come non si può escludere una rescissione unilaterale dell’accordo sul nucleare da parte degli Usa (ma che, a quel punto, avrebbe un impatto economicamente limitato per l’Iran). E chissà a quel punto come reagirebbe la teocrazia iraniana. Allo stesso modo potrebbero degenerare una serie di situazioni locali, dove sono a confronto gli interessi iraniani e sauditi o israeliani, in particolare in Libano, magari all’indomani delle prossime imminenti elezioni.

La sensazione complessiva è dunque quella di un’aggressione americana all’equilibrio che sembrava stesse emergendo dalla fine del conflitto siriano, con Russia, Iran e Turchia a gestire il “dopo”: i primi due incassando i dividendi della vittoria, Ankara limitando la sconfitta e ottenendo qualche contentino territoriale nel nord della Siria in funzione anti-curda

La sensazione complessiva è dunque quella di un’aggressione americana all’equilibrio che sembrava stesse emergendo dalla fine del conflitto siriano, con Russia, Iran e Turchia a gestire il “dopo”: i primi due incassando i dividendi della vittoria, Ankara limitando la sconfitta e ottenendo qualche contentino territoriale nel nord della Siria in funzione anti-curda.
La nuova amministrazione Usa sembra infatti voler minare i presupposti di questo nuovo equilibrio, provando a “ghettizzare” nuovamente l’Iran – mandano così in soffitta la dottrina Obama, che col nuclear deal voleva lasciare nell’area una situazione di balance of power”tra Iran e Saud, lasciando così agli Usa la possibilità di disimpegnarsi progressivamente dall’area mediorientale in favore del Pacifico, dove il confronto con la Cina sarà lo scontro strategico del futuro – e riallineando la propria politica estera nella regione a quella di Israele e Arabia Saudita. Con quali ricadute è ancora presto per dirlo con certezza, ma le avvisaglie non promettono niente di buono.

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