Il giovane youtuber Favij scrive da vecchio. Leggete Gero Mannella, l’alchimista dei linguaggi

Il bastone e la carota. Un libro stroncato e uno elogiato alla settimana. Lorenzo “Favij” Ostuni pubblica “The Cage. Uno di noi mente”, un libro ammuffito e privo di invenzione narrativa. Il vero antidoto in questo Paese di seriosi è l'ironia non-sense di Mannella

Il bastone. Primo comma per vendere un libro-pacco: il packaging. Impeccabile. Intanto, preliminare, il nome. Non sta bene usare il logo d’arte, Favij, lo youtuber che fa un sacco di soldi dicendo un sacco di cretinate su YouTube. Lorenzo Ostuni – che è quello reale – è meglio, il nome nobilita il libro. Poi. Il titolo. Rigorosamente in inglese. The Cage. Poi. Il sottotolo. Acutamente vago: “Uno di noi mente”. La copertina. Un frammento delle scale labirintiche di Escher. Note a tutti, domestiche e decorative. Poi bisogna pensare al contenuto. Basta arruolare uno che scrive di mestiere – Jacopo Olivieri – senza menzionarlo in copertina, nella ‘quarta’ o nelle bande laterali (poverino, appicciamo un cero per lui). Poi ci vuole la bandella. “Il romanzo di Favij [qui tocca citarlo, per conquistare una porzione dei suoi molteplici ‘seguaci’, ndr] è sorprendente”. Firma Pierdomenico Baccalario, che è “l’autore italiano per ragazzi più venduto nel mondo” (così la medesima bandella), l’ultimo libro l’ha pubblicato per Mondadori (così si fa tutto ‘in casa’), e uno l’ha scritto insieme a Olivieri, una mano lava l’altra, una bandella vale l’altra. Il ‘pacco’, ora, è confezionato, utile ad ossigenare le casse della casa editrice più ‘generalista’ – genericamente pubblica stupidaggini – che c’è, Mondadori. Il resto del libro – un claustrofobico videogame, che ricorda tanto tanti film di genere (a me viene in mente The Cube) e soprattutto la generazione dei librogame, più divertenti, però, e scritti meglio, con il loro stile argutamente anonimo – va usato come ‘caso’. Quando uno come Favij, che ha rivoluzionato, a suo modo, la comunicazione, si dà al romanzo, gli si ghiacciano le palle. Diventa più realista del re. Scrive come se avesse ottant’anni, senza uno straccio di invenzione, di slang, non c’è una storpiatura giovanilista, una graffiante epopea sgrammaticata, uno squirting verbale fuori dal vaso. Resta la griffe – Favij – su un romanzo sballato, sbagliato. Cosa significa? Che il libro – un gruppo di ragazzini che devono scampare da una asfissiante prigionia, rischiando la morte, perché, ovvio, “dovete andarvene da qui o morirete. Avete 60 ore” – gioca sul riflesso pavloviano del lettore. Tutto ciò che ti attendi, Favij – o Olivieri, o entrambi – te lo dà. Esempi sparsi. Il protagonista si sveglia, va da sé, “di soprassalto”, in una cella che non può essere altro che “angusta”, annientato da una “routine” che come tutte le routine è “monotona”, finché non lo turba un “rombo” che è, indovina indovinello, “sordo” e “sinistro”. Sembra il giochino che si fa alle scuole. Come definireste la “sensazione di inquietudine”? Bravi, sì, è proprio “palpabile”. Come definireste la cella “angusta” con un linguaggio più scurrile, da cinematografia americana di serie C? “Fottuta cella”, ottimo! Ma state attenti, perché se dovete “camminare in bilico” su un “cornicione” anche quel cornicione va definito con lo stesso aggettivo, virato al maschile, “fottuto”. D’altronde, il “rimbombo” sulla grata è sempre “metallico”, la saliva che cola dalla bocca è sempre “schiumosa”, le mascelle sono sempre “serrate” e se uno sta zitto è perché “non riusciva a spiccicare una sola parola”. Pare incredibile. Il romanzo del supergiovane Favij è un dinosauro narrativo, un libro ‘matusa’, imbarbarito dall’assenza di qualsiasi vaglio editoriale. Andrebbe adottato nelle scuole di scrittura per insegnare come non si aggettiva, perché lo sanno anche i muri che, narrativamente, la via più facile è quella più becera: le mani non si ‘serrano’ – eccidio retorico – basta ‘chiuderle’; e non si può berciare a casaccio “fateci uscire, bastardi!”: se non vediamo il viso di questi letali “bastardi”, non ci crediamo, non è una frase credibile neppure nel più improbabile dei film. Libro per libro, sarebbe linguisticamente più interessante sbobinare le puntate di FavijTV su carta stampata. Ne verrebbe fuori qualcosa tra Fantozzi e James Joyce, tra Super Pippo e Pier Vittorio Tondelli.

Lorenzo ‘Favij’ Ostuni, The Cage. Uno di noi mente, Mondadori 2018, pp.188, euro 16,90

La carota. La cosa mi sorprende sempre. Gli editori transatlantico si ostinano a pubblicare il noto senza verificare le meraviglie dell’ignoto. Gero Mannella ad esempio. Per me è uno scrittore dall’ironia istrionica, dalla furia comica deflagrante. Per le Edizioni Ensemble ha pubblicato da poco Scheletri nell’armadio, “una dark comedy abbastanza hard boiled (ma al dente)”, dove ci sono “una ninfomane, un disegnatore di identikit cubista, un formichiere, uno studente di anatomia che sogna un cadavere tutto per sé, un celerino in bicicletta, due piccioni bombardieri, un ispettore che vomita alla vista del sangue, l’assistente dell’ispettore collezionista di tappi di birra (o teste umane all’occorrenza)”, e soprattutto un incipit che incenerisce il tentativo di romanzo – pardon, di videogame – di Favij. Eccolo: “Mettiamola così. È notte, sono le tre, e uno scatolone per umani si staglia sul circostante avvolto da qualcosa di impalpabile che potremmo definire bruma se stessimo in campagna, aerosol se vagassimo per la stratosfera, ma più propriamente chiameremo smog, trattandosi di una periferia urbana industriale”. In sintesi, Mannella è uno che potrebbe vendere tonnellate di libri. Basta guardare il suo sito personale (www.geromannella.com), dal logo esplicito (“Storie che fanno cagare – centronord – o cacare – Sud, isole”), per capire che siamo di fronte a un alchimista dei linguaggi. Questa la sua ‘poetica’: “Stillare il non-sense dalle intercapedini della comune vulgata scritta, raccoglierlo in arnie con celle esagonali, ed usarlo a mo’ di nuovo DNA per costruire una babele inclinata, proclive al crollo inevitabile, e dunque alla ciclica riedificazione. Distrarre, polverizzare o sovvertire i luoghi usati del verbo e del pensiero, scindere le molecole spontanee o cristallizzate che legano untuose entità e attributi tra loro, e che annichilano il senso riposto e l’esperienza”. Questo l’aneddoto biografico: “Nel 1997 è finalista al Premio Calvino col romanzo Ferendedalus… Durante la serata della premiazione il Mannella siede in seconda fila, proprio dietro la buonanima di Norberto Bobbio, e per tutta la serata rimane soggiogato dai suoi enormi padiglioni auricolari”. D’altronde, a proposito di Scheletri nell’armadio, quelli del Premio Solinas hanno scritto: “Il plot ha la vis comica di un Frankenstein Junior, il surreale di un Clouseau amplificato ed il paradossale dialettico di Totò”. In questo Paese di seriosi, il genio di Mannella macera nel sottobosco editoriale ed è un virus nei recessi del web. Assurdo moltiplicato con idiozia patria.

Gero Mannella, Scheletri nell’armadio, Edizioni Ensemble 2017, pp.186, euro 12,00

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