Quanta intensità avrà il tentativo americano di sabotare l’accordo sul nucleare con l’Iran ancora non è chiaro, né forse deciso. Più evidente il “movente” di questa mossa, a lungo covata dall’amministrazione Trump: archiviare la linea in politica estera mediorientale tracciata da Obama. L’indebolimento, parziale ma innegabile, dell’influenza americana in Medio Oriente viene attribuito dagli ambienti vicini al Pentagono proprio al messaggio che l’ex presidente avrebbe dato agli Stati della regione con il nuclear deal con l’Iran: gli Usa sono alla ricerca di un balance of power tra le potenze regionali – in particolare tra il fronte sunnita guidato dall’Arabia Saudita e quello sciita capeggiato dall’Iran – che prescinda dal coinvolgimento diretto americano e intendono ridurre il proprio coinvolgimento nell’area.
Questa politica è risultata particolarmente indigesta per i pilastri storici delle alleanze statunitensi in Medio Oriente, Israele e l’Arabia Saudita. La prima è infatti preoccupata per la propria sicurezza, con l’Hezbollah libanese e reparti militari iraniani arrivati a ridosso dei confini israeliani grazie alla guerra in Siria. La seconda è la rivale storica di Teheran nella competizione per il primato nel Golfo, e Riad ha visto indebolire la propria posizione nei confronti dell’Iran da una serie di vicende: dalle Primavere arabe, che hanno abbattuto diversi regimi alleati di Riad, alla guerra contro l’Isis. Questa è infatti un’organizzazione sunnita, che ha permesso – nel corso della guerra in Siria e in Iraq contro le roccaforti del Califfo – agli sciiti (e in particolare all’Iran) suoi nemici di espandere notevolmente la propria presenza militare nella regione e di godere di una migliore percezione a livello diplomatico. Dunque per i Saud vedere che grazie all’accordo sul nucleare Teheran continua a rafforzarsi economicamente e diplomaticamente, oltretutto in un momento geopoliticamente favorevole, è intollerabile e l’azione di lobbying a Washington è molto forte.
Il malcontento degli alleati sarebbe tuttavia probabilmente sopportabile per Washington, se non fosse che nello spazio lasciato dall’allontanamento degli Stati Uniti dal Medio Oriente si è inserita con successo la Russia. Mosca ha sfruttato abilmente la guerra in Siria per salvare il proprio alleato a Damasco, ampliare la propria presenza militare nell’area, allontanare la fondamentale pedina turca dalla Nato e attrarla nella propria orbita di influenza e, in generale, per accreditarsi presso tutti gli attori dell’area – inclusi Israele e l’Arabia Saudita – come una potenza emergente nella regione. Un risultato indigesto per gli ambienti militari statunitensi.
Il motivo di una sortita degli Usa contro l’accordo sul nucleare, detto in modo banale, sarebbe che gli Stati Uniti vogliono tornare ad avere un peso maggiore in Medio Oriente, e prendersela con l’Iran è la scelta più ovvia
Di qui la tentazione americana di tornare al passato, relegando nuovamente l’Iran nell’isolamento internazionale, dando un segnale forte ai propri alleati (soprattutto Riad e Tel Aviv) e avversari (soprattutto il Cremlino). Nelle prossime settimane si vedrà, in base a quanto Trump vorrà calcare la mano sulla questione del nuclear deal, l’importanza che Washington attribuisce alla partita mediorientale.
L’accordo sul nucleare con la Repubblica Islamica è il pretesto perfetto per Trump per imprimere una svolta effettiva alla linea americana degli ultimi anni. L’atteggiamento nei confronti del regime di Teheran viene infatti spesso cambiato all’alternarsi degli inquilini della Casa Bianca: se Reagan aiutò Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran del 1980-1988 e Bush padre evitò di abbattere il regime di Baghdad nel ’91 proprio per mantenere bilanciato il peso di Teheran, la presidenza Clinton propiziò una parziale distensione con la teocrazia iraniana, che ebbe in quegli anni la presidenza riformista di Khatami. Bush figlio inserì l’Iran nell’Asse del male nel 2002, in reazione all’attentato dell’11 settembre (nonostante l’Iran fosse sciita e Al Qaeda un’organizzazione terroristica sunnita) e, tredici anni dopo, Obama concluse l’accordo sul nucleare, complice la presidenza “moderata” di Rohani a Teheran.
Una riprese delle ostilità da parte di Trump, in questo momento non dipenderebbe dunque da un paventato mancato rispetto del nuclear deal da parte di Teheran: gli ispettori della AIEA hanno confermato di recente la condotta corretta da parte dell’Iran. Né si può ritenere ci sia veramente una questione ideologica. La Repubblica islamica è una teocrazia, un regime oppressivo e a volte brutale, ma non peggiore di altri regimi alleati di Washington, a cominciare proprio dalla monarchia saudita. Il motivo di una sortita degli Usa contro l’accordo sul nucleare, detto in modo banale, sarebbe che gli Stati Uniti vogliono tornare ad avere un peso maggiore in Medio Oriente, e prendersela con l’Iran è la scelta più ovvia.