Salvini e Di Maio hanno a lungo discusso su diversi punti del contratto di governo. Ma c’è un’idea su cui sembra che l’abbiano sempre pensata allo stesso modo: serve più carcere. Nella versione definitiva del contratto si legge della necessità riformare i provvedimenti emanati durante l’ultima legislatura, tesi “unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari, a totale discapito della sicurezza della collettività”. Motivo per cui, per ristabilire la certezza della pena, sarebbe necessario “riordinare il sistema”, che ha visto l’abrogazione e la depenalizzazione di reati e “periodici ‘svuota carceri’”. Lega e 5 Stelle hanno poi messo nero su bianco il bisogno di “ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi come il furto in abitazione, il furto aggravato, il furto con strappo, la rapina e la truffa agli anziani”. Come? Innalzando le pene. Infine, un capitolo è dedicato anche ai più giovani: “A fronte di una progressiva precocità di comportamenti criminali, anche gravi, da parte di minori, occorre rivedere in senso restrittivo le norme che riguardano l’imputabilità, la determinazione e l’esecuzione della pena per il minorenne”.
Le righe di contratto dedicato alle carceri sembrano ben rispondere al crescente senso di insicurezza che serpeggia nell’elettorato. Solo leggendole, quasi ci si sente più sicuri. Molte statistiche, però, raccontano una realtà diversa. A dare le cifre ci pensa l’associazione Antigone, che da 20 anni visita le carceri italiane pubblicando scrupolosi report. Il documento di quest’anno racconta come il numero di detenuti nelle carceri italiane è aumentato di più di 2mila unità, passando da 56.289 a 58.223. Dal 31 dicembre 2015, negli istituti penitenziari italiani ci sono 6mila detenuti in più. Pare quantomeno azzardato parlare di “periodici svuota-carceri”. Tutto questo, nonostante nel 2017 si sia registrato il numero più basso di reati degli ultimi dieci anni. Dal documento emerge anche che il tasso sovraffollamento degli istituti penitenziari è del 115,2%, con picchi a Como (200%) e Taranto (190%). Al proposito, nella bozza di governo l’unica soluzione individuata è quella di costruire nuovi istituti penitenziari, aumentando il costo di un sistema che già pesa quasi 3 miliardi di euro all’anno sulle casse dello Stato. L’associazione Antigone documenta, infine, le condizioni disastrose delle carceri italiane: la muffa, le docce intasate, i 52 suicidi.
Se vogliamo costruire un sistema rabbiosamente giustizialista, le linee-guida del contratto di governo sembrano perfette. Ma se vogliamo vivere in un Paese più sicuro, dovremmo indebolire – se non abrogare – il carcere
Se vogliamo costruire un sistema rabbiosamente giustizialista, le linee-guida del contratto di governo sembrano perfette. Ma se vogliamo vivere in un Paese più sicuro, dovremmo indebolire – se non abrogare – il carcere. Una conclusione che non è frutto di un esercizio filosofico o di preconcette ideologie, ma di un ragionamento corroborato da numeri che parlano chiaro. Per capire perché è utile recuperare la lezione di un libro pubblicato nel 2015 da Luigi Manconi, Stefano Anastasia (ricercatore di Filosofia del diritto), Valentina Calderone (direttrice dell’associazione A buon Diritto) e Federica Resta, (avvocatessa) dal titolo Abolire il carcere. “Il carcere, così com’è, non funziona”, scrivevano gli autori. Il dato chiave per comprendere dove il meccanismo si è inceppato è quello della recidiva: secondo gli ultimi dati disponibili al 70%. Una percentuale molto alta. In pratica più di 2 reclusi su 3, al momento del rilascio, sono destinati nuovamente a delinquere (rendendo le strade, piazze e case italiane meno sicure) e tornare in carcere. Eppure, le statistiche ci dicono che un modo per abbassare drasticamente il tasso di recidiva esiste: le misure alternative, che quando applicate fanno precipitare la percentuale al 19%. Il ricorso a provvedimenti come l’affidamento ai servizi sociali o la semilibertà per lavorare o studiare però non sono al momento incentivati in alcun modo. Anzi, le statistiche dimostrano che ci si ricorre sempre meno. Del resto, anche all’interno degli istituti penitenziari, solo il 23% dei detenuti va a scuola, mentre meno di 1 su 3 di quelli tra i 15 e i 64 anni lavora.
Manconi e soci, nel loro libro, si spingevano a proporre soluzioni che, nel quadro attuale, possono sembrare fantascientifiche: l’abolizione dell’ergastolo, l’esclusione dei minori dal carcere e la concessioni dei domiciliari alle detenute con figli minori di 10 anni (“mai più bambini in carcere”). Senza voler osare tanto, c’è da dire che la riforma delle carceri a cui l’ultima legislatura ha lavorato negli ultimi 3 anni puntava quantomeno a incentivare le misure alternative, a equiparare la malattia fisica a quella mentale e si richiamava alle Regole penitenziarie europee riguardo il tempo da trascorrere fuori dalla cella (restando dentro il carcere). Il lungo iter che l’ha portata in Parlamento, però, le impedirà con ogni probabilità di avere pieno compimento. Il contratto di governo, al proposito, non va oltre una generica volontà di “valorizzare il lavoro in carcere come forma principale di rieducazione e reinserimento”. E sarebbe strano leggere il contrario visto che, quando il 16 marzo il consiglio dei ministri approvò il decreto, sia Salvini che il possibile nuovo ministro della Giustizia Bonafede avevano tuonato contro la decisione (l’unico che, più di un mese dopo quel giorno, disse qualcosa a favore fu Roberto Fico).
La stragrande maggioranza di chi è recluso, prima o poi, uscirà. Se vogliamo continuare a riempire le carceri nonostante i reati diminuiscano, siamo sulla buona strada. Ma se vogliamo davvero un Paese più sicuro, la strada da seguire è un’altra.
Se l’unica funzione della pena è quella di affliggere il condannato con il solo intento di appagare il nostro senso di vendetta senza alcuna preoccupazione per la funzione rieducativa del carcere, la violenza è la forma di sanzione più equa. Come ha scritto Manconi, “Nel caso estremo, non c’è dubbio che solo la pena di morte rappresenta la retribuzione più proporzionata”: meno costosa, più incisiva, capace di bloccare in modo definitivo la possibilità di ripetizione del delitto. Anche se volessimo dimenticare secoli di evoluzione del diritto e soddisfare i nostri istinti più biechi, però, dovremmo ricordare che solo il 5% di chi è in carcere è lì per scontare un ergastolo. La stragrande maggioranza di chi è recluso, prima o poi, uscirà. Se vogliamo continuare a riempire le carceri nonostante i reati diminuiscano, siamo sulla buona strada. Ma se vogliamo davvero un Paese più sicuro, la strada da seguire è un’altra.