Alla fine saranno costretti a farla quella benedetta fotografia insieme, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Sembra strano ma dei due leader di Lega e Movimento 5 Stelle, sedicenti fondatori della terza repubblica, non è ancora stata scattata un’immagine “ufficiale”. Non una stretta di mano pubblica. Non uno scambio di sorrisi da tramandare come icona della nuova stagione. Nei mesi scorsi si sono evitati platealmente. Al debutto comune nel salotto politico-finanziario di Cernobbio, lo scorso settembre, quando arrivava l’uno, se ne andava l’altro, nonostante entrambi pernottassero proprio all’albergo di Villa d’Este. Lo stesso è avvenuto, prima delle elezioni, in qualsiasi studio tv in cui erano invitati. Mai insieme davanti alle telecamere, Salvini e Di Maio hanno evitato persino di incrociarsi nei corridoi. Erano avversari, del resto.
Ora che sono alleati di fatto, emerge la confidenza che fra Salvini e Di Maio è maturata dopo le elezioni del 4 marzo. Fatta di continui scambi di sms, di telefonate, ultimamente persino di brevi incontri riservati. Una sintonia umana, fra due capi-partito convinti di dover seppellire il passato a ogni costo. Che è anche una sintonia generazionale: Salvini e Di Maio, 45 e 31 anni, sentono di non avere rivali nel panorama politico attuale. Nemmeno quel Matteo Renzi, coetaneo del leader della Lega, che ha già sprecato la sua occasione. A conti fatti, le biografe dei padri del futuro governo raccontano già molto della fotografia che non è stata ancora scattata. Deboli carriere lavorative alle spalle, una formazione post-ideologica che li spinge a dire che destra e sinistra non esistono più, una vita familiare senza sfarzi ma illuminata da storie di copertina con fidanzate quasi sempre in disparte. Salvini e Di Maio sembrano lo stesso prodotto politico. Ma sono assai diversi fra loro.
Una sintonia umana, fra due capi-partito convinti di dover seppellire il passato a ogni costo. Che è anche una sintonia generazionale: Salvini e Di Maio, 45 e 31 anni, sentono di non avere rivali nel panorama politico attuale. Nemmeno quel Matteo Renzi, coetaneo del leader della Lega, che ha già sprecato la sua occasione
Il segretario leghista è l’arruffapopolo che ha improvvisamente scoperto la vocazione istituzionale. Ha una carriera politica che data 1993. Venticinque anni trascorsi a fare il consigliere comunale a Milano e, per la metà del tempo, anche l’europarlamentare. Ma a Salvini, quando era un soldato semplice, non hanno mai fatto fare nemmeno l’assessore. Il potere che ha avuto è sempre stato mediatico, come direttore di Radio Padania e organizzatore implacabile di manifestazioni di protesta contro moschee, campi nomadi e blocchi del traffico. Almeno fino a quando la vecchia guardia non è caduta, e lui ha preso il posto dei fondatori, Umberto Bossi e Roberto Maroni. Rottamandoli. La scuola della Lega delle origini si vede ancora in tutto quello che Salvini fa e nel tono che usa per presentarsi al pubblico. Allergico alle formalità, la sua è una maratona senza sosta di comizi, comparsate in tv, gazebo, incontri nei mercati, interventi irriverenti. È una agenda che toglie il respiro, interrotta solo in due circostanze. Quando deve stare coi due figli, Federico e Mirta, avuti da altrettante compagne. E quando c’è qualche partita importante del Milan. A essere cambiato, però, è quello che Salvini dice: indipendentista ortodosso quando il partito aspirava a essere il sindacato del Nord, una volta diventato segretario è diventato paladino del “prima gli italiani”.
Una trasformazione netta, resa possibile anche dalla pratica comunicativa coltivata sin da giovanissimo. Di Salvini si parla perché entra nel dibattito di giornata con lo slogan più radicale. Perché si fa fotografare mentre guida una ruspa. Perché indossa le felpe con il nome della città in cui è in visita. E perché è capace di cambiare idea fiutando lo spirito del tempo: chi lo direbbe oggi che il leader leghista è stato non solo secessionista ma anche animatore, vent’anni fa, della lista dei comunisti padani? Un’opportunismo che ha sempre provocato la sottovalutazione della sua forza da parte degli avversari. Per capire il seguito popolare raccolto dal leader della Lega non basta ascoltare quello che dice ai comizi o nei talk-show. È necessario osservarlo soprattutto prima e dopo: Salvini è capace di consegnare volantini a ogni ambulante di un mercato rionale o di fermarsi per un’ora in una piazza a fare selfie con ogni singolo supporter. Vuole farsi passare per uno di loro, e ha una parola per ciascuno di loro. Il contatto con la folla (reale o virtuale attraverso la sua bacheca Facebook) è la linfa della sua leadership: per questo Salvini ha continuato a fare campagna elettorale, anche quando è iniziata la lunga trattativa per il governo fra Montecitorio e Quirinale. Dal 5 marzo ha tuttavia smesso le felpe per l’abito scuro e la cravatta. Un doppio volto che gli avversari definiscono spesso doppiogiochismo: trattare coi 5 Stelle ma anche con Berlusconi, presentarsi alla mano ma anche girare sempre con l’autista.
L’abilità di Salvini è, in fondo, quella di essere un camaleonte. Lo è anche Luigi Di Maio, capace in due mesi di trattare con la Lega, poi col Pd, poi di chiedere elezioni anticipate e, infine, di tornare a negoziare con la Lega. Anche se il leader dei Cinque Stelle ha assunto da tempo un’immagine più rassicurante e assai meno colorita di quella mostrata da Salvini. Più di qualcuno lo definisce un grigio democristiano. Il suo profilo sembra nato da una precisa strategia di marketing. Giacca, cravatta e sorrisi ostentati a ogni occasione pubblica. Un’agenda di incontri fitta ma sempre molto razionale, ordinata, mai mediaticamente esuberante. E poi i capelli pettinati e la camicia ben stirata anche durante i comizi elettorali. I maligni sostengono che Di Maio sia stato scelto dai vertici del movimento proprio per questo, perché è capace di parlare all’elettorato moderato. L’uomo giusto per portare i pentastellati a Palazzo Chigi senza le isterie rivoluzionarie dei primi anni.
L’abilità di Salvini è, in fondo, quella di essere un camaleonte. Lo è anche Luigi Di Maio, capace in due mesi di trattare con la Lega, poi col Pd, poi di chiedere elezioni anticipate e, infine, di tornare a negoziare con la Lega. Anche se il leader dei Cinque Stelle ha assunto da tempo un’immagine più rassicurante e assai meno colorita
Rispetto a Salvini, Di Maio ha anche imparato a non cercare la polemica di giornata, a non aizzare gli avversari. E si è prestato perfettamente alla parte, come il classico ragazzo della porta accanto. Quello che, convocato dal presidente della Repubblica per le consultazioni, si presenta al Quirinale al volante della sua Clio grigia. Oppure si fa fotografare mentre consuma il pranzo di Pasqua nella cucina di famiglia, sorridente espressione del ceto medio italiano (ma rigorosamente in cravatta anche a tavola con i genitori). Un leader alla mano, insomma, e anche compassato. Dopotutto per cinque anni Di Maio è stato il vicepresidente della Camera. È l’ambigua identità del volto istituzionale di un movimento nato contro il sistema, ma costretto a farvi parte. Chissà quanti attivisti devono essere caduti dalla sedia quando, pochi giorni dopo le elezioni, Di Maio si è affrettato ad assicurare fedeltà all’Unione Europea e alla Nato.
Buonsenso o opportunismo? In molti, anche tra i Cinque Stelle, ironizzano proprio sulla natura democristiana del giovane capo politico. Un leader disposto a dialogare e allearsi con tutti, in base alla convenienza del momento. Non una caratteristica recente. In un’intervista dello scorso anno, passata un po’ inosservata, Di Maio anticipava già la nuova linea post-ideologica. Figlio di un papà missino, il capo dei pentastellati aveva ammesso, tra lo sconcerto di molti, che il Movimento raccoglie idee di destra e di sinistra, in egual misura. Tanto da inserire nel pantheon grillino sia Almirante che Berlinguer. Un’apertura disarmante, che negli ultimi due mesi si è concretizzata nella fallimentare strategia dei due forni e di una serie di errori che hanno rischiato di metterlo fuori strada. Fino all’impensabile: dopo aver tuonato per settimane contro Silvio Berlusconi, ai cronisti stupiti che lo stavano intervistando in Transatlantico, Di Maio ha sostenuto che in realtà c’era stato un fraintendimento. «Nessun veto sul Cav, la nostra è solo volontà di dialogare con la Lega». Dietro alle lunghe e discutibili strategie, Di Maio resta comunque un leader dal destino segnato. Costretto all’accordo con Salvini per non perdere la grande occasione della sua carriera politica. Stretto dal vincolo dei due mandati, per il capo grillino questo governo rappresenta l’ultima chiamata a un ruolo istituzionale di primo piano. È un problema che, per esempio, Salvini non ha. Così come nella Lega non esiste un fronte interno tanto temibile come nei Cinque Stelle, incarnato dall’ala più progressista del presidente della Camera, Roberto Fico, e dell’ex deputato Alessandro Di Battista.
Eccole le due biografie che anticipano la foto che non c’è. Poco importa che Salvini e Di Maio facciano i premier in una fantomatica “staffetta” a Palazzo Chigi. O magari si dividano il ruolo di vice presidente del Consiglio di una figura terza. O ancora decidano di rimanere fuori dal governo per controllarlo e non farsi fagocitare da eventuali fallimenti. La stagione politica attuale, che si riveli breve o lunga, è all’insegna del loro gioco. Del loro essere anti-politici ma anche politici di professione. Del loro presentarsi come leader di destra ma anche di sinistra. Del loro vivere alla maniera del popolo ma sempre vicini al Palazzo. Due politici della terza repubblica. Ma anche due giocatori d’azzardo, che hanno scommesso fino alla fine per mettere fuori partita gli avversari. Almeno fino alla prossima mano.