Forse è bene rifilare questa storia – accumulando fiato – dalla fine. Lei si chiama Assia Wevill, indossa una bellezza che stordisce e il terzo marito si chiama David. Ted Hughes si innamora di lei nel maggio del 1962, il giorno in cui Assia compie 35 anni. Otto anni prima Ted, tra i grandi poeti del secondo Novecento, ha conosciuto Sylvia Plath, il cui talento lirico, dirà, è impareggiabile, pari soltanto a quello di Emily Dickinson. Quattro mesi. S’incontrano in Inghilterra nel febbraio del 1956; si sposano in giugno. Vivranno da ingenui, da estremi, da folli. Nel 1957, per la Faber and Faber di Thomas S. Eliot, Hughes esordisce alla poesia con The Hawk in the Rain; il genio di Sylvia, invece, ossessionata dalla tracotanza lirica del marito, ci impiega più tempo a esplodere.
Nel 1960 esce la placca The Colossus, ma il ‘mito’ di Sylvia levita dopo la sua morte, per merito del marito fedifrago. Sylvia si uccide l’11 febbraio del 1963, dopo aver raffinato una poesia, preparato la colazione ai figli, sigillato finestre e porta, la testa nel forno. L’estate prima Ted copulava con Assia, “la mia Lilith, in una camera d’albergo, le strappai di dosso i vestiti con tutta la nera tensione che avevo accumulato e la presi. Non pensai a mia moglie, né a suo marito, né ai miei figli, né al futuro”. Ted si mette con Assia, ha una figlia da lei. Sei anni dopo il suicidio di Sylvia, nello stesso modo, si uccide Assia. “Il 23 marzo 1969 mise la testa nel forno e uccise con il gas se stessa e nostra figlia Shura, di quattro anni appena compiuti. Nella morte mia moglie si rivelò – come mia Euridice e come artefatto letterario – un’avversaria più pericolosa che non in vita”.
Ted Hughes, geniale poeta dal verso barbarico, viso di incauta bellezza, giocava a fare gli oroscopi, s’imponeva una mitologia privata, giostrava con la Cabbala. “Dopo il suicidio della mia musa nera mi convinsi che era tutta opera degli dèi. Ero un dannato, errante tra gli spettri, che contagiava tutte le donne della sua vita con l’oscurità malinconica da cui lui traeva una gioia tragica, ma che distruggeva loro”. Vado alle spicce. Iperborea ha pubblicato uno dei libri più sinistri e fascinosi della stagione letteraria presente. S’intitola Tu l’hai detto (pp.256, euro 17,00), e specula negli inferi della “coppia ‘maledetta’ della letteratura moderna” (così la quarta). Il libro potrebbe facilmente sfogare nel patetico, ma Connie Palmen, l’autrice, tra le grandi d’Olanda – in Italia ha avuto un certo successo Le leggi, pubblicato da Feltrinelli – ha scelto la via ardua, folle.
Ha dato voce a Ted Hughes. Ha indagato l’ugola e la mente del “bugiardo fedifrago e traditore ipocrita”, come è stato tacciato Ted, eletto ‘Poet Laureate’ nel 1984 e morto vent’anni fa, poco dopo aver pubblicato il canzoniere d’amore per Sylvia, le struggenti Lettere di compleanno. Il romanzo, ruvido e complesso, è grande quando si eleva sull’ustione biografica facendo rintoccare il poetico e il sublime: “Esplorare la propria vita interiore senza riconoscere la nostra origine ed eredità animale è un esercizio vuoto, astratto. Bisogna osare il salto, mollare gli ormeggi per raggiungere un io autentico. L’originalità di uno scrittore si riconosce dal coraggio con cui ha osato lanciarsi nell’abisso, e da quanto questo è profondo”. Già sedotto da Ted e da Sylvia, stralunato da questo romanzo, ho raggiunto Connie.
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