Il bastone. Dal momento che “è considerato uno degli autori più importanti della letteratura mondiale” – così la biodegradabile bio, sull’aluccia della copertina: ma da chi? ma da quali imbarbarite autorità? ma quando mai… – si permette di scrivere il romanzo, autobiografico, in terza persona, manco fosse Cesare che fa la guerra ai Galli. “Ho scelto di adottare la narrazione in terza persona, per consentire ai personaggi la descrizione delle proprie vite”, scrive, giustificandosi, questo Vercingetorige della New Age, il guru degli scemi, massima espressione della new wave della cretinata editoriale, che ca**o voglia dire lo sa solo lui. Abbiate pietà della mia scurrile verbosità, ma al cospetto di Paulo Coelho, che in questo libro, come urla il titolo (con tanto di pacchiano simbolo della pace, e potpourri psichedelico), va in pappa per la cultura Hippie, è impossibile imbracciare il kalashnikov della critica letteraria. Bisogna pigiare lo sbeffeggio. Lo schema del libro è sempre quello che fa friggere gli ebeti appartenenti al ‘coelhismo’, la religione creata da Coelho – all’epoca dei fatti, un bel riccioluto brasileiro di buona famiglia – dove ogni cosa è lecita, anche la lista della spesa, per fomentare misticismo spiccio, tanto a guadagnare – compresi gli spicci – è sempre lui, il divino Paulo: viaggio ‘iniziatico’ (dal Sudamerica ad Amsterdam, direzione Kathmandu ma tappa definitiva a Istanbul) condito da frasi sapienziali utili a eccitare le chiocciole, non s’offendano. Così, le definizioni di Coelho rendono Wikipedia più efficace di Kant: i Fab Four (ergo: i Beatles) sono “i grandi rivoluzionari dell’epoca”, Machu Picchu è una “città perduta”, 2001: Odissea nello spazio “davvero un capolavoro” e Il Signore degli Anelli “una saga che si svolge in luoghi mitici”. Il libro di Tolkien, per altro, torna buono più in là, a pagina 274, perché Karla, una che Paulo si scopa con svogliatezza (pagina 198: “alla fine, si verificò un’erezione turgida; poi avvenne la penetrazione, seguita dal rapido orgasmo di Paulo”, roba che è più provocante la storiella dei bimbi portati in tondo dalla cicogna), ne ha intriso alcune pagine di Lsd. L’Lsd, ci spiega Coelho, per inciso, qualche pagina prima (116), è quello che lo “prendi… e ti dici: ‘Cazzo, non avevo mai notato prima che la terra respira e i colori cambiano in continuazione?’”. Ad ogni modo, Paulo, religiosamente perbenista, non usa allucinogeni – “ho chiuso con l’Lsd” – e a noi bastano due righe della sua scrittura allucinante per andare in delirio di astinenza da grandi libri (per questo, si consiglia vivamente di alternare la lettura di Hippie, qualora vogliate compiere la catatonica esperienza, con brani, presi a caso, di Thomas Mann o di Vladimir Nabokov). Il rimbambimento a tappeto di frasi d’indecente e indecifrabile ovvietà, buone a lordare la pagina social di qualche viziosa che crede che dal cielo piovano confetti (esempi: “è importante condividere”; “amare è anche tranquillità, serenità, o addirittura solitudine”; “la verità è quello che ci rende liberi”; “la sapienza umana è follia dinanzi a Dio”) ha il merito di rendere La profezia di Celestino, altrimenti cestinabile, un testo complesso come Essere e tempo e Dan Brown una specie di Tommaso d’Aquino. La sciatteria con cui Coelho parla del sufismo (“non è altro che prendere coscienza di chi si è davvero”, beh, ma per quello basta un piatto di lasagne, un pugno sul naso o una notte stellata) marmorizza l’urlo squarciato, ‘Battiato, salvaci tu!’, e perfino l’anatema. Mi domando, in effetti, due cose. Perché un lettore dovrebbe affiliarsi al ‘coelhismo’ – la religione dove la vita eterna, eternamente remunerata da voi, la offrite a lui, a Paulo – e mandare il cervello al macero? Se v’interessano i Sufi, per dire, leggete dei saggi, ce ne sono tanti, divulgativi, altrimenti abbeveratevi al Mathnawi di Rumi, tradotto e commentato con garbo da Gabriele Mandel per Bompiani, nel 2006. Seconda: ma come fanno gli scrittori veri ad accettare di pubblicare con un editore che fa i soldi con questi libri improponibili, indigeribili, sonore pernacchie all’intelligenza? Quanto al resto, possiamo serenamente gettare Hippie nel cassonetto. Anzi, voi potete evitare di comprarlo (con la stessa cifra ne comprate due, di quelli buoni). Ve lo concede Paulo: “Bisogna dimenticare i libri… soltanto così è possibile avvicinarsi all’autentica consapevolezza di sé”. D’altronde, al cuore non si comanda, dice Paulo, “non apprenderai niente di più di ciò che il tuo cuore ti vorrà insegnare”, e il mio cuore insegna che Coelho è purissima coglioneria.
Paulo Coelho, Hippie, La nave di Teseo 2018, pp.300, euro 18,00
La carota. Viso intagliato nella rotula di un dio sinistro, occhi di biforcuta intelligenza, leggere Isaac B. Singer, un genio, dona sempre una sorta di corroborante fastidio. Figlio di un rabbino chassidico, cresce in Polonia, scrive in yiddish, si trasferisce a New York nel 1935 e quarant’anni fa si pappa il Premio Nobel per la letteratura (uno dei meglio assegnati). Singer va letto per imparare come si scrive, ovvio, ma in questo contesto va sventolato come l’aglio sul muso di Coelho. Singer, infatti, ci educa a diffidare dei cialtroni della fede, dei teologi di cianfrusaglie, piglia a testate perfino Dio, con seducente furia retorica. Nella sua autobiografia, Ricerca e perdizione, è clamorosamente chiaro: “La Torah ci dice che Dio si pentì di aver creato l’uomo… Non esiste libro che dica la verità sull’uomo e sulla sua natura in maniera più candida e chiara delle Scritture. Persino le persone ritenute buone sono cattive. I martiri di ieri diventano spesso i prepotenti di oggi. L’uomo, in quanto specie, si merita tutte le frustate che prende”. Recentemente uno studioso di Singer, David Stromberg, ha tirato fuori dallo scaffale degli inediti, pubblicandolo sul New Yorker, un racconto degli anni Cinquanta, The Boarder, in cui Singer scrive che “tutti gli uomini sono nazisti. Che diritto abbiamo di massacrare un vitello e di mangiarlo? I macellai fanno stragi. Hanno la stessa fede di Hitler: forza è giustizia.Come Dio: Lui è il nazista che vuole massacrare tutti i nazisti. Lui è l’archetipo di Hitler, l’arci-Hitler. Ha più potere di tutti, perciò tortura tutti”. Singer non ha limiti, disintegra, con virile purezza, ogni perbenismo. Uno dei romanzi più belli – appena riproposto da Adelphi – è il primo, Satana a Goraj, “uno dei capolavori della letteratura yiddish… una storia di isterismo religioso” (Jacob Sloan), pubblicato nel 1935 su rivista, poi nel 1955 negli Usa, in inglese. Singer racconta la fine, apocalittica, della cittadina di Goraj, siamo in Polonia, nel 1666, afflitta dai seguaci di Shabbatay Tzevi, il presunto Messia ebreo, cabalista e asceta, arrestato a Costantinopoli, che si convertì all’islam. Il gesto, clamoroso e tragico, fu preso da alcuni fan come atto mistico: “Goraj indulse a ogni tipo di licenziosità, facendosi di giorno in giorno più corrotta. Persuasi che ogni trasgressione fosse un gradino sulla scala dell’autopurificazione e dell’elevazione spirituale, gli abitanti di Goraj varcarono le Quarantanove Porte dell’Impurità”. Singer, con biblica lussuria, esplora, potentemente, il male, in ogni sua forma (“i padri giacevano con le figlie, i fratelli con le sorelle, i figli con le madri. Nechele, la moglie di Levi, si mostrava completamente nuda e si accoppiava con un vetturino sotto gli occhi di tutti, compreso il marito… i bambini erano particolarmente cattivi… cani randagi azzannavano arti smembrati, corti e avvoltoi si cibavano di carne umana”), in questo romanzo magistrale, di liturgica crudeltà. L’uomo è cattivo, sempre, e la sua malvagità si esalta quando pensa, impunemente, di avere rivelazioni divine da donare agli esseri umani. I sacerdoti del ‘coelhismo’ si facciano benedire dalle manate di Singer.
Isaac Bashevis Singer, Satana a Goraj, Adelphi 2018, pp.182, euro 18,00