È partito, il primo governo gialloverde è fatto, adesso bisogna fare il programma perché il contratto Lega-M5S è tutt’al più un canovaccio. È “la nuova destra al potere” (la Repubblica), il “laboratorio del populismo” (la Stampa) o “la via obbligata” (Corriere della sera)? Con tutto il rispetto di autorevolissimi analisti politici, l’alba della Terza Repubblica sembra proprio il tramonto della Prima. Gli uomini, la forma e i contenuti non fanno che dimostrarlo. Certo, Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono personaggi nuovi (chi meno e chi più). Ma i tecnici che hanno scelto emanano (chi meno chi più) l’odore delle scartoffie statali, degli uffici di gabinetto ministeriali, dei sottosegretariati. Tutti romani o romanizzati, tutti dipendenti pubblici o da aziende a partecipazione statale, nessuno di rilevante che provenga dal settore privato né tanto meno dall’industria. La Lega nordista e industrialista si fa rappresentare da Giancarlo Giorgetti, già bocconiano nonché cugino del banchiere Massimo Ponzellini. Ma tra le fila padane di gente che “ha fatto un lavoro vero”, come avrebbe detto Silvio Berlusconi, non se ne trova. Altro che Donald Trump, qui spunta il fantasma di Amintore Fanfani.
È un’altra similitudine impressionante con la vecchia Italia e una differenza profonda con la Seconda repubblica che, invece, aveva portato in politica imprenditori e grand commis cosmopoliti. Non c’è molto da stupirsi, del resto: il contratto di governo scrive che sia la Lega sia la M5S vogliono tornare “all’Italia prima di Maastricht”. Il trattato venne firmato nel febbraio del 1992, pochi mesi dopo crollava la lira e con essa la Prima repubblica, appunto.
A parte chi ha fatto solo il politico di professione, a cominciare da Salvini e Di Maio, i tecnici rispondono tutti all’identikit neostatalista. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è un avvocato esperto in faccende amministrative. Il ministro dell’economia Giovanni Tria è un professore universitario (bravo economista e persona per bene, per carità), il ministro degli esteri Enzo Moavero è un funzionario pubblico (grande espero di Unione europea, non c’è dubbio, ma tant’è), la ministro della Difesa Elisabetta Trenta è un ex capitano dell’esercito che insegna intelligence alla Link Campus che fa capo a Malta e ai servizi segreti, c’è poi un immancabile generale (Sergio Costa) all’ambiente, un dirigente scolastico laureato in scienze motorie (Marco Bussetti alla pubblica istruzione). In sostanza, i loro stipendi, per quanto meritati, sono sempre stati pagati dai contribuenti.
C’è poi la pietra dello scandalo, Paolo Savona, economista di primo piano, che ha accumulato cariche non solo pubbliche, ma private (Confindustria, Impregilo, banche), un uomo che per livello intellettuale, esperienze ed età ne sa più di tutti quanti. Ma anche lui, sia pur per la bronzea forza anagrafica, è un esponente di quella Prima repubblica morta con Maastricht.
In fondo l’Italia è andata avanti così per decenni, perché non tornare indietro? “Nostalgia, nostalgia canaglia”, cantava Al Bano, un anticipatore del nuovo corso
L’Italia “prima di Maastricht” che ora vogliono ripristinare con una operazione di pura restaurazione travestita da falsa rivoluzione, non è solo il paese del ritorno alla lira (più o meno illusorio che sia). È il mondo dello stato che fa tutto, dai panettoni Motta alle Alfa Romeo, dalle coperte (l’Eni possedeva ad un certo punto anche la Lanerossi) alle locomotive.
“Nazionalizziamo il Monte dei Paschi”, dicono gli “uomini nuovi” propinando in salsa nuova la vecchia ricetta. “Impediamo la delocalizzazione”, promette il neoministro del lavoro Di Mao. Si levano ovunque gridi di dolore ai quali il nuovo governo non può restare insensibile. Nazionalizziamo la Seleco, i call center e perché non Borsalino? Un marchio eccellente, senza dubbio. Purtroppo gli uomini non portano più i cappelli, ma solo berretti, per lo più da baseball. Si potrebbe introdurre un incentivo fiscale a favore del copricapo a larghe tese, perché no? Proteggiamo i tassisti dalla concorrenza. I notai, gli avvocati (ben rappresentati da una principessa del foro come Giulia Bongiorno oltre che dallo stesso Conte). In fondo l’Italia è andata avanti così per decenni, perché non tornare indietro? “Nostalgia, nostalgia canaglia”, cantava Al Bano, un anticipatore del nuovo corso.
Aspettiamo e vediamo, questo è sempre l’invito più saggio. Molti sostengono che la prova del nove sarà l’euro ed è vero. Tria è un euro-tiepido, di fronte al dilemma se uscire o no dalla moneta unica sospende il giudizio. È un po’ come l’amor fou: si sta male, ma non si può stare senza. A trattare con l’Unione europea non sarà solo; anzi, la partita è nelle mani di Savona e in parte di Moavero. A lui toccherà litigare mese dopo mese dentro l’Ecofin con i suoi colleghi europei.
Tuttavia la vera ordalia non è a Bruxelles, ma a Montecitorio. Il primo grande ostacolo del nuovo governo si chiama legge di bilancio e se lo troverà davanti subito in un crescendo continuo, fino al momento di presentarla in ottobre. Tria dovrà trovare la quadra tra flat tax (che a lui piace sia pure in versione soft) e reddito di cittadinanza (che a lui non piace). Vorrebbe lasciar aumentare l’Iva dal 3 primo gennaio prossimo per recuperare i 12,4 miliardi necessari. Ma se spende quei quattrini salta il tetto al deficit pubblico. Inoltre, che dirà Salvini, gran paladino delle partite Iva? E Di Maio al quale spetta smontare (stracciare diceva Salvini) la riforma Fornero ed estendere l’indennità di disoccupazione?
Contraddizioni in seno al popolo, avrebbe commentato Mao Tsedong e si sarebbe fregato le mani. Noi, invece, dovremo con tutta probabilità aprire il portafoglio. Perché nessuno ha spiegato se verrà o no ridotta, la pressione fiscale complessiva. Una flat tax compensata con l’Iva, con le accise o con imposte straordinarie, alla fine della fiera non cambierà granché, mentre le spese continueranno a correre indisturbate. Proprio come nella Prima repubblica.