A poche ore di distanza dal giuramento come ministro dell’Interno, Matteo Salvini in un comizio a Vicenza ha dichiarato: “Per i clandestini è finita la pacchia, devono fare le valigie”. Sono seguiti attacchi alle Ong, alla Tunisia “che esporta galeotti”, a Saviano, minacciato di querela. Dopo aver tanto voluto il Viminale, ora che l’ha ottenuto il segretario della Lega, forse, dovrebbe abbandonare toni e concetti propagandistici, possibilmente per dedicarsi con realismo – e pur da una legittima posizione di destra – alla questione migratoria.
Innanzitutto sarebbe auspicabile un cambio di toni. Parlare di “pacchia” per i migranti – anche irregolari, anche che non hanno diritto a stare in Italia – che hanno attraversato il deserto prima e il Mediterraneo poi, spesso a rischio della vita, è ai limiti dell’indecenza. Anche il termine “clandestino”, che è scorretto e razzista come sancisce la Carta di Roma, andrebbe evitato. Ma al di là di queste questioni di forma, è sulla sostanza che c’è da augurarsi Salvini voglia intervenire con buon senso.
Partiamo da un’evidenza: gli sbarchi sono già crollati. L’ex ministro Minniti è stato in grado, grazie ad accordi umanamente discutibili con alcune fazioni libiche, di ridurre le partenze quasi dell’80%. Nei primi cinque mesi del 2017 erano cioè arrivate più di 60 mila mila persone, nei primi cinque del 2018 ne sono arrivate meno di 13.500. Salvini, che possiamo immaginare sordo alle critiche di chi lamenta le condizioni disumane dei campi libici in cui si arena il grosso del flusso migratorio, se volesse preservare questa situazione di flusso “scarso” – rispetto agli ultimi anni – dovrebbe cercare di mantenere in vita quanto creato dal suo predecessore.
Non è vero che solo il 5% di chi arriva ha diritto ad essere accolto. Tra rifugiati e aventi diritto alla protezione internazionale o sussidiaria, circa un richiedente asilo su quattro non può essere rimandato in patria
Quanto al problema di chi oramai è arrivato in Italia, Salvini dovrà accettare la realtà – ignorata o quantomeno piegata nella sua narrazione – per cui non è vero che solo il 5% di chi arriva ha diritto ad essere accolto. Tra rifugiati e aventi diritto alla protezione internazionale o sussidiaria, circa un richiedente asilo su quattro non può essere rimandato in patria, anzi ha diritto ad essere accolto in Italia. Ma non solo. Anche chi fa parte dei restanti tre quarti al momento non è spesso rimpatriabile. Serve infatti che venga identificata la sua nazionalità, operazione complessa, e soprattutto serve un accordo bilaterale col suo Paese d’origine.
Al momento c’è ancora molta strada da fare e se Salvini vuole portare avanti con una qualche efficacia una politica di aumento dei rimpatri, dovrà lavorare di concerto col ministro degli Esteri (e probabilmente anche con quello dell’Economia) per siglare simili accordi. E, ancor di più, dovrà giocare con abilità le sue carte ai tavoli europei, visto che il programma più ambizioso e potenzialmente efficace al momento è il “migration compact” dell’Unione europea: un progetto di investimenti da decine di miliardi nei Paesi da cui origina il flusso migratorio per bloccare le partenze e creare condizioni economiche e di sviluppo favorevoli alla permanenza delle giovani generazioni di africani nei rispettivi Paesi.
Altra questione di fondamentale importanza per la gestione del flusso migratorio è poi il futuro della Libia, il Paese da cui transitano i quattro quinti abbondanti dei migranti. Salvini, e soprattutto il governo di cui fa parte, dovranno essere di nuovo abili a far valere il peso economico e politico dell’Italia nell’ex colonia africana, giocando di sponda – ma senza perdere terreno – con Parigi, visti anche i recenti sforzi diplomatici di Macron. Gli accordi siglati da Minniti sono una pezza temporanea a una situazione che potrà essere risolta – o quantomeno gestita con maggiori risultati – solo quando verrà creato prima e stabilizzato poi uno Stato libico. E non è un’impresa che si possa compiere in pochi mesi.
A Salvini insomma serviranno pazienza, competenza e sangue freddo. Non deve ripetere alcuni errori del passato dei governi di cui era parte la Lega, come ad esempio la carcerazione per il reato di immigrazione clandestina – una bomba sul sistema giudiziario e carcerario, giudicata oltretutto illegittima dalla Corte di Giustizia dell’Ue nel 2011 – o, peggio ancora, i respingimenti in mare che costarono all’Italia una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012.
Considerando che il fenomeno migratorio sarà secondo gli esperti “epocale” e non destinato a esaurirsi nei prossimi anni, la partita più importante che può giocare l’Italia per ridurre l’impatto sul proprio sistema-Paese è quella europea
Soprattutto, considerando che il fenomeno migratorio sarà secondo gli esperti “epocale” e non destinato a esaurirsi nei prossimi anni, la partita più importante che può giocare l’Italia per ridurre l’impatto sul proprio sistema-Paese è quella europea. In particolare la revisione dei regolamenti di Dublino, che impediscono – salvo rare e poco significative eccezioni – la ripartizione dei migranti tra Paesi europei. Il territorio dell’Unione europea è enorme e i suoi abitanti sono centinaia di milioni. Se equamente ripartito il flusso migratorio, anche nelle sue fasi più impetuose, sarebbe facilmente gestibile. A maggior ragione lo potrebbe essere in una situazione di “normalizzazione” degli arrivi via mare in Europa.
I più fieri oppositori in Europa di questa condivisione dei migranti sono i sovranisti e le destre nazionaliste “alleate” di Salvini, come Orban in Ungheria, il PiS in Polonia, il Fpö in Austria, e via dicendo. Salvini dovrebbe sfruttare i propri buoni rapporti, politici e personali, presso questi partiti e questi leader – in particolare del gruppo Visegrad – per fare l’interesse dell’Italia. Sempre che non sia vero l’assioma per cui i nazionalisti sovranisti possono essere alleati soltanto finché non si trovano al potere nei rispettivi Paesi.