Le speranze delle varie opposizioni di portare Erdogan al ballottaggio si infrangono nella notte di domenica. Le strade si riempiono dei militanti e dei sostenitori dell’Akp, partito islamista sempre meno moderato, che festeggiano i risultati. Il “Sultano” incassa una vittoria contestata e risicata, col 52 % dei voti, ma fondamentale. Sarà infatti lui ad avere i poteri che la nuova costituzione turca – voluta proprio da Erdogan e approvata da un referendum nel 2017 anch’esso vinto per pochi punti percentuali – attribuisce ora al presidente.
In Parlamento, inoltre, il suo partito islamista Akp, pur perdendo circa il 7% dei consensi rispetto alle ultime elezioni, ottiene la vittoria grazie all’alleanza coi nazionalisti del Mhp. I due partiti, che si sono presentati in coalizione alle urne, ottengono circa il 55% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi. La “cura” imposta al Paese negli ultimi anni da Erdogan ha dato il risultato sperato ma, dicono alcuni analisti turchi in via riservata, se per vincere un incontro truccato fai comunque fatica, probabilmente la tua carriera non è destinata a durare ancora a lungo. Forse è vero, o forse è l’ultima illusione che ci si racconta come alternativa all’orrore.
La Turchia è infatti sempre meno una democrazia compiuta. Giornalisti, intellettuali, attivisti e anche cittadini comuni vengono arrestati e perseguitati da una magistratura influenzata dal potere politico (grazie alle riforme passate negli anni scorsi da Erdogan). Salahaddin Demirtas, leader del partito filo-curdo Hdp e candidato alla presidenza, resta ancora in carcere. Il clima di caccia alle streghe successivo al fallito golpe del 2016, con incarcerazioni e licenziamenti di massa tanto nelle forze armate quanto tra i dipendenti pubblici, opprime ancora il Paese.
Lo scivolamento verso un modello autocratico ha concesso a Erdogan di restare in sella anche quando la sua popolarità iniziava a declinare, ma se la crisi dell’inflazione – che galoppa ben al di sopra del 10% e proietta incertezza sulla sostenibilità di una crescita “drogata” dell’economia – non verrà risolta, quella maggioranza di turchi che ha chiuso gli occhi in cambio di pane e lavoro negli ultimi anni potrebbe diventare irrequieta. E cosa potrebbe fare un presidente, dai grandi poteri e quindi dalle grandi responsabilità di fronte all’opinione pubblica, indisponibile ad abbandonare il potere se in futuro montasse il malcontento popolare? Qualche indicazione, purtroppo non molto incoraggiante, ci viene dagli ultimi cinque anni.
Il “Sultano” incassa una vittoria contestata e risicata, col 52 % dei voti, ma fondamentale. Sarà infatti lui ad avere i poteri che la nuova costituzione turca – voluta proprio da Erdogan e approvata da un referendum nel 2017 anch’esso vinto per pochi punti percentuali – attribuisce ora al presidente
Dopo aver incarnato per quasi un decennio le speranze del popolo turco – di benessere economico, di un ingresso in Europa, di una pace duratura coi curdi, di un sogno neo-ottomano in Medio Oriente etc. – Erdogan ha iniziato a sentir cedere la terra sotto i piedi nel 2013, con le proteste di piazza Taksim. La reazione è dura: centinaia di arresti, violenze sulla folla, migliaia di feriti, nove morti. È allora che si incrinano i rapporti con lo storico alleato Gülen e col suo movimento islamico-moderato (che nei mesi successivi verranno bersagliati sempre più da stampa e giudici, fino ad essere direttamente accusati di aver ordito il fallito golpe del 2016, e quindi perseguitati).
Nel 2015, indebolito dall’appannamento della sua immagine e in difficoltà sul fronte estero a causa degli eventi in Siria, il presidente turco vede l’Akp arretrare pericolosamente alle elezioni di giugno, quando il suo partito perde la maggioranza assoluta in Parlamento. Quello che segue è probabilmente il momento in cui la Turchia viene forzatamente fatta deragliare dai binari di una democrazia, pur giovane e imperfetta, per essere instradata verso un modello autocratico. Esplodono bombe, e non sono solo i kamikaze dell’Isis a colpire. In alcune circostanze c’è mano dei servizi segreti turchi, dello “Stato profondo”, che fa o lascia fare. I giornalisti vengono perseguitati, intimiditi, arrestati. L’obbiettivo è creare un clima di tensione, di assedio. I toni di Erdogan contro Gülen e chiunque ritenga un “nemico” o un “traditore” si alzano sempre di più, il processo di pace coi curdi – iniziato proprio dal “Sultano”, quando ancora la sua figura era quella di un leader moderato – viene interrotto e il Pkk attaccato militarmente. Il partito Hdp, che entrando in parlamento aveva contribuito alla perdita della maggioranza in Parlamento da parte dell’Akp, viene fatto bersaglio, e non solo di parole. La strategia funziona: alle elezioni di novembre il partito di Erdogan ottiene la maggioranza assoluta. Ma il Paese rimane irrequieto e diviso.
Nei mesi successivi il clima continua a peggiorare e la Turchia ad essere sempre più isolata internazionalmente, a causa della Siria. Ankara è senza la sponda degli Usa contro i curdi – usati da Obama come alleati sul terreno contro l’Isis – e si infiamma lo scontro con la Russia, intervenuta in Siria a settembre, che culmina con l’abbattimento di un cacciabombardiere di Mosca, cui segue una grave crisi diplomatica e l’imposizione di sanzioni economiche da parte del Cremlino.
Cosa farà nel futuro Erdogan? Se ad ogni smottamento nei consensi il presidente turco ha finora reagito trasformando il Paese sempre più in un’autocrazia, cosa potrebbe succedere se la crisi dell’inflazione dovesse – come credono alcuni osservatori economici – diventare una crisi economica?La Turchia sarebbe spinta ancora più in là sul sentiero verso la dittatura?
Erdogan è indebolito, a maggio 2016 costringe alle dimissioni il primo ministro Davutoglu, fino ad allora suo fedele delfino, per frenare l’emorragia di consenso. Le basi del suo potere sembrano indebolite e il partito Akp è in fermento. Ma poche settimane dopo un golpe improvvisato e dai contorni ancora poco chiari fallisce. È quella l’occasione che il Sultano sfrutta abilmente – al punto di suscitare sospetti – per stringere definitivamente la sua presa sul potere (e per fare pace con Putin), anche al di là della riforma costituzionale approvata pochi mesi dopo. Arresti, purghe, sparizioni, propaganda martellante. Alcune caratteristiche della democrazia vengono preservate, ma sempre più sembra la dittatura di una maggioranza stordita dalla retorica nazionalista del “pericolo esterno” e sfamata grazie a un’economia piegata all’esigenza di consenso nel breve periodo.
È in questo contesto che i risultati delle ultime elezioni vanno letti e interpretati. Di qui l’interrogativo angosciante su cosa farà nel futuro Erdogan. Se ad ogni smottamento nei consensi il presidente turco ha finora reagito trasformando il Paese sempre più in un’autocrazia, cosa potrebbe succedere se la crisi dell’inflazione dovesse – come credono alcuni osservatori economici – diventare una crisi economica? Il pesante coperchio messo dal “Sultano” sulla società turca verrebbe finalmente sollevato? O la Turchia sarebbe spinta ancora più in là sul sentiero verso la dittatura?