A parte qualche eccezione laterale o periferica, possiamo definire la società di oggi, in particolare quella occidentale, come urbana e digitale. Sono queste infatti le due caratteristiche che più la contraddistinguono: siamo abituati a un orizzonte comunicativo e informativo che dipende in gran parte dai mezzi connessi alla rete e ci muoviamo per la stragrande maggioranza del tempo in un panorama cittadino, antropizzato. Eppure c’è anche molto altro, anzi abbiamo sete di molto altro.
Quest’altro è sicuramente la natura, quello spazio verde che in certe giornate di grigiore di città sentiamo così lontano da noi. Fin dall’antichità la natura è stata la metafora bucolica di concetti come serenità, pace, vita utopica e senza affanni, contrapposta a un’esistenza collettiva, organizzata, se vogliamo politica. Anche oggi e con più forza l’approdo naturale è una specie di terra promessa, di fuga – almeno ideale o culturale – dagli affanni di tutti i giorni. E questo è testimoniato anche dal fiorire di un certo genere di pubblicazioni editoriali che vedono nella natura, spesso selvaggia, incontaminata o sconosciuta, un orizzonte di salvezza.
Iniziato forse qualche anno fa con Norwegian Wood di Lars Mytting (Utet), c’è tutto un filone che tende in particolare a esplorare le connessioni ormai perdute, ma ancestrali o quasi misteriche, che abbiamo con le piante. Il mondo vegetale rappresenta circa il 98% della biomassa presente sulla Terra, eppure la nostra formazione mentale ci porta a dare molto più valore al regno animale, per non dire quasi esclusivamente al genere umano. Eppure c’è chi dice che le piante ci parlino, comunichino con noi, siano essenziali per il nostro equilibrio (oltre a essere fondamentali fonti di ossigeno senza le quali non saremmo qui).
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