Sono dieci anni che mi occupo di stage, e dieci anni che la prima domanda che mi sento fare ogni volta che incontro giovani agli eventi, o da colleghi giornalisti che cercano informazioni per scrivere di questo tema, è sempre invariabilmente: qual è la probabilità di essere assunti alla fine di uno stage?
Ora, una risposta definitiva e complessiva a questa domanda non c’è. Non c’è perché manca in Italia un monitoraggio serio e sistematico dell’esito degli stage, intesi come il grande insieme degli stage curriculari (fatti mentre si studia) e quelli extracurriculari (fatti dopo).
Ma la risposta parziale potrebbe esserci. Solo che il ministero del Lavoro non la vuole dare.
Già. Il ministero del Lavoro infatti dispone di tutte le informazioni relative a tutti gli stage extracurriculari. Ciò accade perché la legge prevede obbligatoriamente che ogni stage attivato debba essere notificato attraverso la “comunicazione obbligatoria”, al pari dei contratti di lavoro.
A quel punto ogni singolo tirocinio extracurricolare entra nel mirino di tracciabilità del ministero, che sa con precisione millimetrica non solo quanti ne vengono attivati ogni anno ma anche quanto durano, quanti anni hanno gli stagisti, se sono maschi o femmine. E conosce l’esito di ogni tirocinio. Sa se lo stagista è stato assunto o no. Se c’è stata assunzione, il ministero del Lavoro sa anche con quale tipologia contrattuale e per quale durata.
Dunque alla domanda “qual è la probabilità di essere assunti alla fine di uno stage?” il ministero oggi guidato da Luigi Di Maio ha una risposta precisa. Ma non la vuole rendere pubblica.
E’ l’unica spiegazione che mi dò guardando il Rapporto sulle comunicazioni obbligatorie uscito l’altroieri, che contiene anche i dati sui tirocini. Il rapporto che rende noto che in Italia l’anno scorso sono stati attivati quasi 368mila stage extracurriculari: tra il 2012 e il 2017 il numero di questo tipo di tirocini è letteralmente raddoppiato.
Ma quanti di questi 368mila stage si sono trasformati in contratto di lavoro?
«I dati confermano la tendenza già osservata lo scorso anno in merito al fatto che il tirocinio è sempre più utilizzato come strumento di selezione da parte dei datori di lavoro. Infatti, nel 2017 il numero dei rapporti di lavoro attivati a seguito di una precedente esperienza di tirocinio è stato superiore a 116mila». Queste tre righe sono tutto quello che il Rapporto dice sul tasso di assunzione degli stagisti. In otto pagine dedicate ai tirocini, gli autori del Rapporto non ritengono neanche opportuno specificare la percentuale (è pari a 31,5%, per la cronaca).
E’ allucinante questa… superficialità? Riservatezza? … Omertà? Cosa vuol dire 31,5%? Quanti di questi contratti sono precari, quanti stabili? Quanti tempi determinati, indeterminati, apprendistati, cococo? Quanti di queste assunzioni durano solo qualche settimana o qualche mese? E quanti, pur non venendo assunti nell’azienda dove hanno fatto il tirocinio, poi trovano subito lavoro altrove? Sono compresi in quel 31,5%, o da aggiungere?
E poi: quali settori assumono di più e quali di meno? Quanti dei 44mila uomini e delle 24mila donne che hanno fatto uno stage nel settore “Industria” nel 2017 sono stati assunti? Quanti dei 38mila uomini e delle 46mila donne nel settore “Commercio e riparazioni”? Quanti dei 21mila uomini e delle 24mila donne nel settore “Alberghi e ristoranti”?
E ancora: vengono assunti più gli stagisti giovani o gli stagisti anziani? Più le donne o gli uomini? Più in Valle d’Aosta o in Basilicata? Quanti dei 12mila stagisti siciliani sono stati contrattualizzati al termine del percorso formativo? Quanti dei 77mila stagisti in Lombardia? Dei 38mila stagisti in Lazio? Dei 15mila in Toscana?
Secondo l’ultimo Rapporto sulle comunicazioni obbligatorie, appena pubblicato, l’anno scorso sono stati attivati quasi 368mila stage extracurriculari: tra il 2012 e il 2017 il numero di questo tipo di tirocini è letteralmente raddoppiato.
Il ministero ha tutti questi dati. Potrebbe divulgarli. Invece sceglie di tenerli nascosti. Li fornisce, talvolta, su precisa richiesta (alla Repubblica degli Stagisti li ha dati, due anni fa). Ma il punto è che non li mette a disposizione di sua spontanea volontà. Non li rende pubblici e accessibili a tutti. Fornisce dettagli su dati francamente molto meno importanti, e sorvola completamente sull’analisi di quello più rilevante.
E’ una scelta scellerata. Le politiche attive del lavoro si dovrebbero basare sui dati, sui risultati, permettere di imparare dagli errori. I decisori politici dovrebbero poter basare le proprie decisioni, le scelte sui budget da destinare a ciascuna misura, sulle evidenze di ciò che funziona. Se lo stage oggi è – e lo è – il principale strumento di avvicinamento al mondo del lavoro, tenere questi dati nascosti contribuisce a una patina di grigio e di indefinito che impedisce di sapere con certezza quali stage ha senso incentivare e quali vanno fermati, perché non danno esiti occupazionali apprezzabili.