La durata massima dei contratti a tempo determinato dovrà essere di 24 e non più di 36 mesi. Le proroghe possibili, ora 5, scenderanno a 4. Qualora si superino i 12 mesi di contratto a termine dovranno essere fornite causali, ora non esistenti. Si allunga il tempo a disposizione per impugnare il contratto da 120 a 180 mesi.
Questo il contenuto del decreto Dignità riguardante il tempo determinato.
A meno che l’intenzione fosse solo di fare un regalo, di fatto, agli avvocati del lavoro, che avranno molto più lavoro nei prossimi anni, è evidente che il fine della maggioranza, e di Di Maio in particolare, fosse quello di favorire le assunzioni a tempo indeterminato.
Anche volendo ignorare il fatto che l’aumento dell’indennità massima in caso di licenziamento illegittimo da 24 a 36 mesi (di gran lunga il massimo in Europa) non aiuta allo scopo, il punto è che non possiamo trattare il mondo del lavoro come un gioco a somma zero.
La realtà è che non possiamo illuderci che vi sia un trasferimento automatico di lavoratori dal contratto a tempo determinato a quello a tempo indeterminato senza che si perda nessuno.
L’evidenza di questi ultimi anni è che proprio nel periodo in cui sono coincisi la ripresa economica e il boom del lavoro a termine vi è stato il maggiore incremento di occupazione. Non solo si è raggiunto un numero di lavoratori mai toccato prima, 23 milioni 382 mila occupati a maggio secondo l’Istat, ma negli ultimi anni sono state proprio le fasce più fragili, giovani, provenienti dal Sud, a beneficiare maggiormente dalla congiuntura positiva. I dati Eurostat ci dicono che effettivamente della grande crescita dei posti di lavoro verificatasi dal 2013, dal picco della crisi, circa un milione, 771 mila sono ascrivibili a nuove assunzioni a tempo determinato e 409 mila, un numero comunque positivo, a quelle a tempo indeterminato. E poi vi sono i 136 mila posti persi a partita IVA.
È vero, dal 2016, dalla fine quasi completa delle decontribuzioni, sono stati quasi solo i nuovi contratti a termine a crescere, che nel 2017 hanno superato i nuovi permanenti, ma si è trattato solo di assunzioni sostitutive, ovvero di lavoratori che altrimenti avrebbero potuto ottenerne una a tempo indeterminato? A quanto pare no.
Analizzando l’aumento di occupazione in base alla data di partenza del periodo in esame, si notano dei cambiamenti qualitativi. Se partiamo dal 2013 appare evidentissima la crescita, di quasi l’8%, dell’occupazione dei più anziani, i 50-64enni (è l’effetto della riforma Fornero) e quella molto minore delle altre fasce di età, con addirittura un calo per il i 25-34 enni. Cose risapute, in effetti.
Ma se analizziamo quello accaduto da gennaio 2016, dall’inizio del boom dei contratti a tempo determinati, le cose cambiano un poco: il maggiore progresso è sempre quello del lavoro dei 50-64enni, ma il gap rispetto alle altre fasce d’età è minore, e anzi, per la prima volta, la crescita dei tassi di occupazione dei 15-24enni e addirittura dei 25-34enni, +1,8% e +1,5%, è superiore alla media del +1,3%. Decimali, ma l’inversione di tendenza è evidente.
Per la prima volta i più giovani sono tra i favoriti, e a differenza dei più anziani, tra cui la crescita dei lavoratori è più un effetto tecnico dovuto ai sempre minori ritiri, qui si tratta proprio di nuove assunzioni.
Non a caso nello stesso periodo è evidente la riduzione di uno di quei fenomeni per cui siamo unici in Europa, quello degli scoraggiati. Sono coloro che sarebbero disponibili a lavorare ma non cercano. Tra i 15 e i 74 anni sono l’11,6%, secondo Eurostat, ma si arriva al 28,6% tra i 15 e i 24 anni.
Tuttavia tra il 2013 e oggi vi è stata una diminuzione maggiore proprio tra questi ultimi, con un -0,2% globale e un -1,7% tra i più giovani che diventano rispettivamente il -1,5% e -2,7% se ancora prendiamo come riferimento l’inizio del 2016, il periodo dei contratti a termine.
Se ci soffermiamo solo tra chi ha tra i 15 e i 34 anni e osserviamo cosa cambia in base all’area geografica notiamo che il maggior calo si è verificato nel Mezzogiorno, -1,5% dal 2013 a oggi, e addirittura -3,7% dal 2016, quando c’è stata una accelerazione.
Insomma, la sensazione è che le massicce assunzioni a tempo determinato di questi ultimi due anni non abbiano pescato nello stesso bacino classico di sempre, ma abbiano attinto in fasce prima più ignorate, tra i giovani, i meridionali, tra coloro che neanche cercavano più un lavoro. Si tratta di nuovi lavoratori spesso impiegati in lavori a basso valore aggiunto, con margini ridotti.
Lo si vede anche dal fatto che secondo l’Inps tra fine 2015 e fine 2017, ovvero ancora nel periodo di espansione del tempo determinato, sono diminuiti del 2,62% i salari concessi ai nuovi lavoratori con questa tipologia di contratto, mentre è cresciuto del 9,03% quello per chi ne ha avuto uno permanente.
È chiaro, sono scattati anche alcuni elementi culturali e psicologici, presenti soprattutto nelle piccole imprese, l’esigenza di conoscere meglio il lavoratore, oppure il timore, dopo una crisi devastante, che la crescita di fatturato degli ultimi anni sia solo un fuoco di paglia, e che non si possa mantenere lo stesso livello di attività.
Questo non cambia le cose, anzi è una conferma. Si è trattato di un periodo, ancora in corso, in cui di fatto sono stati favoriti gli ultimi, che hanno potuto trovare un lavoro grazie alla possibilità per le aziende di assumere “a cuor leggero” per mansioni magari semplici, per attività che, avendo margini limitati, questo è il punto, non sono scontate, non è detto possano sopravvivere a un irrigidimento della burocrazia e delle regole.
Un fondo di investimento milanese non avrà problemi a mantenere a tempo indeterminato tutti i propri dipendenti, una rosticceria di Rieti o un piccolo laboratorio artigianale del barese ci penseranno due volte prima di confermare quel nuovo giovane assunto da poco grazie alla recente crescita del giro d’affari che non sappiamo se durerà, magari basterà fare un po’ di straordinari in più o, sappiamo che spesso è così, un po’ di nero.
Lo sapremo tra uno-due anni, c’è in gioco molto, il lavoro dei più svantaggiati, che vengono da anni in cui sono stati l’ultima ruota del carro.