L’Italia è il Paese europeo con la percentuale più elevata d’imprese che ritengono non valga la pena di sostenere i costi della vendita online, perché non ripagati dai benefici. Percezione miope per un sistema produttivo costituito soprattutto da imprese di piccole e piccolissime dimensioni, che potrebbe espandere il proprio mercato di riferimento entrando in Rete.
Siamo in un momento di profonde trasformazioni. Una vera e propria metamorfosi dei mestieri, delle competenze e delle organizzazioni, che ci fa vivere in un periodo di incertezza e complessità, alla ricerca di nuovi modelli di lavoro e di conoscenza. La rivoluzione digitale modifica profondamente il modo di lavorare nelle imprese: trasforma i processi produttivi, ridisegna le strutture, innova i modi e gli spazi della comunicazione, richiede nuove competenze alle persone, cambia le culture organizzative.
Adottare le tecnologie digitali implica sperimentare nuovi processi lavorativi e relazionali, accettando l’iniziale disorientamento e confusione emozionale, per poi trovare nuove categorie di lettura e nuovi modelli di comportamento. Nuove competenze di comunicazione e di convivenza.
Ma le persone e le organizzazioni spesso fanno fatica a cambiare, continuano a funzionare come se nulla fosse, come se si potesse fermare il tempo. L’annuale indagine Istat “Cittadini, Imprese e ICT” evidenzia come solo il 13% delle imprese italiane si collochi a un livello “alto” o “molto alto” di digitalizzazione. Limitata la diffusione di competenze digitali: solo il 16,2% delle imprese con almeno 10 addetti ha persone specializzate in ICT e solo il 12,9% organizza attività formative in materia informatica. Solo il 12,5% delle imprese italiane vende online. (Istat, 2017)
Le organizzazioni basano il loro funzionamento sulle culture d’appartenenza. Una cosa “vera” in un’organizzazione sembra non esserlo più semplicemente entrando in un altro tipo di impresa, dove i modi di sentire e di pensare le cose, cambiano, sono completamente diversi. Sviluppare il pensiero digitale significa partire dalle culture presenti per “innovarle”. Non è facile, non è automatico, non si tratta semplicemente di imparare a utilizzare una nuova tecnologia, ma di costruire, con gli altri, nuove rappresentazioni del lavoro.
Ma occorre mettersi in gioco: imparare nuove regole, abbondonare strade conosciute, sperimentare nuovi percorsi di lavoro. “Perché farlo?”: si chiederanno le persone “mature”, ancorate a certezze e abitudini costruite in molti anni di vita aziendale, e lontane per età dalle tecnologie digitali. Magari sono anche disposte a seguire i nuovi orientamenti dell’azienda, verso cui nutrono un forte senso di appartenenza, ma aspetteranno che siano “dettati” dall’alto, che il nuovo diventi procedura, pratica riconosciuta
Ma occorre mettersi in gioco: imparare nuove regole, abbondonare strade conosciute, sperimentare nuovi percorsi di lavoro. “Perché farlo?”: si chiederanno le persone “mature”, ancorate a certezze e abitudini costruite in molti anni di vita aziendale, e lontane per età dalle tecnologie digitali. Magari sono anche disposte a seguire i nuovi orientamenti dell’azienda, verso cui nutrono un forte senso di appartenenza, ma aspetteranno che siano “dettati” dall’alto, che il nuovo diventi procedura, pratica riconosciuta. Aspetteranno che i primi ad adottare il cambiamento siano i manager. Poi loro si adegueranno.
Nell’ambito di un intervento condotto in un’impresa di cica 4.000 persone, ho mappato culture e competenze digitali, individuando le componenti principali che sottendono il rapporto con l’innovazione. Il primo fattore risultato utile nel differenziare culture e competenze presenti in azienda è la dimensione della vitalità/stallo. Da una parte apertura, curiosità, soddisfazione e una visione positiva dell’innovazione e del futuro; dall’altra chiusura, insoddisfazione e una visione negativa dell’innovazione e del futuro. Dunque, non una variabile legata a uso-non uso (come potevamo aspettarci), ma una dimensione culturale e di approccio verso il mondo, l’innovazione e il futuro. Il secondo fattore, invece, contrappone l’essere in rapporto positivo con l’azienda rispetto a una posizione di “scollamento” da questa.
Il terzo fattore, infine, concerne la partecipazione alle piattaforme di social network (da una parte l’essere sui social network, dall’altra non averli mai utilizzati).
Ciò che colpisce, in particolar modo, è la posizione dei giovani. Quelle risorse tra i 25 e i 34 anni che denunciano una sensazione di forte scollamento tra l’essere nativi digitali, immersi in un modo digitale, fuori dall’azienda; per poi diventare analogici: lavorare con modalità analogiche, dentro una azienda con una cultura analogica. Una vera sensazione di scissione. Una macchina aziendale che li porta indietro in un tempo che non è il loro. Un tempo fatto di: fax, protocolli, telefoni fissi. Il punto critico, che merita attenzione e riflessione, è nel fatto che i giovani indagati non sembrano riuscire a portare – loro – un po’ di novità in azienda. Mantengono separati i due mondi (dentro e fuori), adeguandosi alle pratiche lavorative quotidiane. Non sembrano pensare di poter essere i promotori del cambiamento. Non sembrano cogliere che il bisogno dell’impresa dove lavorano sia, in questo momento storico, quello di sollecitare innovazione e di aprire al nuovo. Non è sempre vero che assorbire le regole presenti e applicarle sia la soluzione migliore. I giovani potrebbero rappresentare i giusti alleati per promuovere cambiamento all’interno dell’organizzazione. Bisogna, però, che si dia loro fiducia, mandato e possibilità di espressione. Valorizzarli come attori e costruttori di futuro.
* Docente di “Formazione e trasformazione digitale” a Università Sapienza Roma e Founder Culture srl