Non c’è solo il presidente dell’Inps Tito Boeri tra i tecnici temuti dai Cinque stelle in vista della “grillizzazione” dell’economia. La stanza dei bottoni della politica economica, tra ministero del Tesoro, quello dello Sviluppo economico e del lavoro, è piena di esperti e dirigenti di lungo corso, più o meno vicini al precedente governo. Di cui il diffidente apparato pentastellato sembra fidarsi ben poco.
Non a caso, al superministero dello Sviluppo economico e del lavoro accorpato sotto il nome di Luigi Di Maio è tutto fermo. «Non una carta firmata, non una riunione di confronto», lamentano i dirigenti. La sensazione diffusa è quella di una sfiducia preventiva dello staff grillino nella macchina organizzativa preesistente, tanto da far pensare in tanti in via Veneto che il ministro si stia servendo in realtà di una “struttura parallela” di tecnici, senza sedersi al tavolo con quelli già al Mise. «Nel tentativo però di non decidere su nulla alla fine», dicono. In effetti manca ancora la nomina del capo ufficio legislativo del Mise, né sono state fatte affidate le deleghe ai sottosegretari. Qualche casella però Di Maio l’ha riempita. Come capo di gabinetto per Mise e ministero del Lavoro ha scelto Vito Cozzoli, già capo di gabinetto di Federica Guidi, poi sostituito da Carlo Calenda, ritenuto molto vicino a Renzi. E per le altre cariche ha pescato nell’apparato burocratico dello Stato, tra Consiglio di Stato, Corte dei Conti e Guardia di Finanza, da cui proviene Salvatore Barca, messo a capo della segreteria del ministro (per il Mise). Mentre, come segretaria particolare è stata scelta la fedelissima Assunta (detta Assia) Montanino, classe 1992, da Pomigliano d’Arco come Di Maio, anche a capo della segreteria del ministero del Lavoro.
Per il resto nulla. Sul tavolo il ministro grillino si è ritrovato oltre 160 crisi aziendali in corso. Ma tranne per i dossier più caldi, come Ilva e Alitalia, i dirigenti non vengono consultati né ricevono risposta alle note inviate sulla scrivania del ministro. «Come una buca delle lettere a cui nessuno risponde. Ma con questa disorganizzazione la macchina si ingolfa, e i rischi non sono pochi», è la lamentela generale. I dirigenti del Mise, a eccezione di qualche contratto a termine, sono tutti di vincitori di concorso. E per far fuori qualcuno servirebbe una riorganizzazione integrale del ministero: una procedura lunga e complicata, che probabilmente Di Maio non si vuole intestare. Da qui l’ipotesi di un gruppo di tecnici ombra.
La sensazione diffusa è quella di una sfiducia preventiva dello staff grillino nella macchina organizzativa del Mise, tanto da far pensare in tanti in via Veneto che Di Maio si stia servendo in realtà di una “struttura parallela” di tecnici
Non si respira un buon clima neanche dalle parti dell’Anpal (Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro), dipendente dal ministero del Lavoro, quella che nei programmi di Renzi avrebbe dovuto nazionalizzare le politiche attive e i centri per l’impiego, se fosse passato il referendum costituzionale. Presieduta dal bocconiano Maurizio Del Conte, uno di quelli il Jobs Act lo ha scritto, in scadenza a gennaio 2019, un mese prima di Boeri. Già prima dell’approvazione del Decreto dignità, il professore di diritto del lavoro della Bocconi aveva messo in guardia Di Maio sul reinserimento delle causali nei contratti a termine. E ora, proprio a seguito del decreto grillino, il 23 luglio l’Anpal probabilmente lascerà a casa dieci lavoratori che avrebbero dovuto essere prorogati con un accordo sindacale.
Ma i nomi di punta entrati mirino di Di Maio, oltre che all’Inps, si trovano soprattutto al ministero del Tesoro, “fortino” di Giovanni Tria, con cui il vicepremier ora sembra aver ristabilito la tregua contraddicendo in una nota congiunta i dati di Boeri sugli 80mila posti in meno generati dal Decreto dignità. Il primo nome scomodo è quello del Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, che deve essere rinnovato dal governo – secondo regolamento – entro novanta giorni dal giuramento. Data di scadenza: fine agosto. Roberto Garofoli, già segretario generale di Palazzo Chigi con Enrico Letta e poi capo di gabinetto di Pier Carlo Padoan, è stato invece già riconfermato dal ministro Tria. Ma Garofoli non è l’unico nome rimasto al Mef tra quelli molto vicini all’ex ministro: tra i dirigenti della vecchia guardia siede anche Federico Giammusso, ex Ocse con Padoan, dal 2014 direttore generale e consigliere dell’ex ministro per la macroeconomia e l’economia internazionale. Scrivanie da cui potrebbero provenire conti non proprio in linea con progetti faraoinici di reddito di cittadinanza e flat tax.
Ma per dirigere le danze, la casella che resta da riempire in via Venti Settembre ora è quella cruciale della dirigenza generale, dopo l’abbandono di Vincenzo La Via, che a maggio ha lasciato l’incarico a sei anni dalla prima nomina. Vista la possibilità di incidere su gestione del debito, partecipazioni statali e ristrutturazioni bancarie, è uno degli incarichi più rilevanti per determinare l’indirizzo di politica economica e industriale del governo. E la nomina spetterà a Tria, che sembrerebbe propendere per la continuità anziché per la rottura, con il nome del vice di La Via, Alessandro Rivera, una vita nelle stanze del Mef con una sfilza di ministri, da Visco a Monti, da Tremonti a Padoa-Schioppa, e attualmente alla guida della direzione banche e finanza.
Maurizio Del Conte, presidente dell’Anpal, uno di quelli il Jobs Act lo ha scritto, è in scadenza a gennaio 2019. A seguito del Decreto dignità, il 23 luglio l’Anpal probabilmente lascerà a casa dieci lavoratori che avrebbero dovuto essere prorogati con un accordo sindacale
La questione riguarda ancora una volta la spartizione delle influenze tra Lega e Cinque stelle nei gangli del potere, che sta bloccando le nomine dei vertici delle partecipate. Al ministero del Tesoro i leghisti hanno piazzato come sottosegretario un nome forte come Massimo Garavaglia, bocconiano, già assessore all’Economia in Regione Lombardia con Roberto Maroni e membro del cda di Cassa depositi e prestiti. Ma soprattutto “pupillo” del sottosegretario Giancarlo Giorgetti, che da Palazzo Chigi gli assicura il suo appoggio. I grillini invece hanno giocato la carta di Laura Castelli, che non gode certo di tanta esperienza come il collega.
Senza dimenticare i vertici di enti pubblici come Istat e Inail, da cui vengono fuori dati e cifre che indirizzano e monitorano il lavoro dell’esecutivo. Entrambi i presidenti vengono nominati dal Capo dello Stato, su proposta del presidente del Consiglio nel caso dell’Istat e del ministro del Lavoro, nel caso dell’Inail, dove Massimo De Felice nel 2016 è stato riconfermato per quattro anni da Giuliano Poletti. Ed entrambi gli istituti sono stati molto collaborativi con il precedente governo. Tant’è che ha provocato reazioni preoccupate e qualche sospetto tra economisti e commentatori l’incontro avvenuto a giugno tra il presidente dell’Istat Giorgio Alleva e la sottosegretaria 5S all’economia Castelli. Il comunicato dell’incontro diceva che Castelli aveva fatto il punto con Alleva «sulla sinergia necessaria da mettere in atto con la politica per il raggiungimento degli obiettivi del contratto di Governo». Un tentativo di “grillizare” anche l’Istat? La carica del presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, scade a luglio e non si sa se sarà rinnovata. I numeri che arrivano da via Cesare Balbo sono da maneggiare con cura, si sa. Ma l’Istat per statuto dovrebbe operare in piena autonomia, senza rispondere ad alcun “datore di lavoro”.