Porti chiusi e salvataggi più difficili: ormai nel Mediterraneo muore un migrante su sette

La denuncia dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Nel 2016 sulla rotta del Mediterraneo moriva un migrante su trentotto, ora perde la vita uno su sette. «I paesi europei si erano detti disponibili ad accogliere 4mila rifugiati evacuati in Niger, ma ne hanno presi solo 200»

Il numero di migranti e richiedenti asilo che sbarcano sulle nostre coste è in netto calo, eppure la rotta del Mediterraneo non è mai stata così pericolosa. Se all’inizio del 2017 si registrava un morto ogni trentotto migranti, nella prima parte di quest’anno si è arrivati a uno ogni diciannove. Nel mese di giugno la tragedia ha assunto un livello ancora più preoccupante. Ormai tra coloro che provano ad attraversare il mare a bordo di imbarcazioni di fortuna, muore una persona su sette. A lanciare l’allarme è l’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Sono i dati dell’organizzazione internazionale a raccontare l’andamento del fenomeno. Dall’inizio dell’anno sono arrivati sulle coste europee 45.700 richiedenti asilo e migranti. Una diminuzione evidente, se comparata agli anni precedenti. Solo nel 2016 si era registrato un numero di sbarchi cinque volte superiore. Eppure si continua a morire. L’Unhcr punta il dito contro la riduzione delle azioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. Le organizzazioni Ong che operano al largo delle coste africane «giocano un ruolo indispensabile» per salvare vite umane. Ecco perché le nuove limitazioni, e la decisione di chiudere i porti, rischiano di avere conseguenze disastrose in termini di perdite di vite umane. Soprattutto in queste settimane estive, il periodo in cui le migliori condizioni atmosferiche moltiplicano la partenza di barconi dalle coste libiche. «Attorno al Mar Mediterraneo ci sono molti Paesi che dovrebbero collaborare maggiormente» spiegano dall’organizzazione, che la prossima settimana incontrerà il ministro Matteo Salvini. «Ad ogni imbarcazione con la capacità di effettuare operazioni di salvataggio dovrebbe essere consentito di sbarcare nel porto sicuro più vicino». Anche in Libia? «In questo momento per noi la Libia non è un porto sicuro» conferma il rappresentante dell’agenzia Onu per il Sud Europa Felipe Camargo durante un incontro alla stampa estera di Roma. Senza considerare che in ogni caso «la guardia costiera libica, da sola, non può salvare tutti i barconi».

All’inizio del 2017 sulla rotta del Mediterraneo centrale si registrava un morto ogni trentotto migranti. Nel mese di giugno la tragedia ha assunto un livello ancora più preoccupante. Ormai tra coloro che provano ad attraversare il mare a bordo di imbarcazioni di fortuna muore una persona su sette

Ma cosa sta succedendo in Libia? L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati può offrire una delle poche testimonianze dirette. Ne parla Roberto Mignone, che da qualche tempo lavora a Tripoli come capomissione per l’Unhcr. I numeri fanno impressione. Gli sfollati interni – libici costretti ad abbandonare le proprie case per sfuggire a violenze e combattimenti – sono 182mila. A questi vanno aggiunti centinaia di migliaia di migranti giunti da altri paesi. Non tutti sono pronti a imbarcarsi per l’Europa. Anzi, la maggior parte vive in Libia ormai da qualche anno e non ha intenzione di rischiare la vita attraversando il Mediterraneo su mezzi di fortuna. Alla base di queste cifre resta un fenomeno migratorio epocale e difficilmente gestibile. «Parliamo di una situazione particolarmente grave», spiega Mignone. L’Unhcr ovviamente non si occupa di tutte queste persone. Ma concentra i suoi sforzi sui 53.200 rifugiati e richiedenti asilo che si trovano nel paese. Il 70 per cento sono arabi, vengono prevalentemente da Siria e Palestina. I restanti 16mila, invece, arrivano soprattutto dall’Africa Subsahariana. Sono i più vulnerabili. Spesso il destino dei richiedenti asilo si confonde con quello degli altri migranti. Avviene, ad esempio, quando le autorità libiche recuperano un’imbarcazione al largo delle coste. Tutte le persone coinvolte vengono riportate indietro e rinchiuse nei centri di detenzione, senza alcuna distinzione. I centri ufficiali sono 35 in tutto il paese, anche se al momento solo la metà è operativa. L’Unchr si occupa di visitare queste strutture, anche se le ispezioni nelle zone più interne devono essere affidate a una ong locale per evidenti questioni di sicurezza. È un’attività fondamentale per assistere le persone detenute e cercare di individuare i rifugiati. Lo scorso anno sono state effettuate 1080 visite, solo all’inizio di quest’anno sono già 700. La situazione è quella che tutti conoscono. Mignone racconta di centri ormai al collasso. «La situazione è complicata, il sovraffollamento crea seri problemi igienici e sanitari. Non mancano casi di gravi abusi». Ma il destino dei migranti in mano ai trafficanti d’uomini è persino peggiore. Rinchiusi sotto terra o in capannoni abbandonati, vengono stipati in attesa di poter partire sui barconi. Costretti a trascorrere lungo tempo in strutture clandestine dove stupri, violenza e torture sono all’ordine del giorno. Impossibile quantificare il numero delle vittime. Si sa, invece, che i detenuti nei centri ufficiali sono in media 5-6mila persone. Anche se in questi giorni, racconta il rappresentante dell’Unhcr, il numero è salito fino a circa 10mila.

«Nei centri di detenzione libici la situazione è complicata, il sovraffollamento crea seri problemi igienici e sanitari. Non mancano casi di gravi abusi». Ma il destino dei migranti in mano ai trafficanti d’uomini è persino peggiore. Rinchiusi sotto terra o in capannoni abbandonati, vengono stipati in attesa di poter partire sui barconi. Strutture clandestine dove stupri, violenza e torture sono all’ordine del giorno

L’Unhcr, come detto, si occupa dei rifugiati. Da qualche tempo è in corso un’operazione di evacuazione dei richiedenti asilo detenuti in Libia. Quest’anno l’organizzazione di Mignone è riuscita a far uscire dai centri di detenzione ufficiali 1.500 persone. Per individuare chi ha diritto allo status di rifugiato serve un dettagliato colloquio, impossibile nelle strutture libiche. «E così dobbiamo selezionare le persone sulla base della nazionalità – racconta Mignone – Chi arriva da paesi con altissimo tasso di rifugiati come la Somalia, Eritrea e Siria viene liberato e spedito in Niger». Qui è stato creato un centro di transito per rifugiati. Una volta riconosciuto il diritto alla protezione internazionale, i richiedenti asilo vengono reinsediati nei paesi che si offrono di accoglierli. Ma sorge un altro problema. Quest’anno molti paesi europei si erano detti pronti ad accogliere 4mila persone, eppure ne sono state trasferite solo 200. Intanto se la struttura nigeriana di Niamey rimane al completo, l’Unhcr non può evacuare altri rifugiati dalla Libia. E così il sistema rischia di collassare. «E pensare che per proseguire efficacemente il programma e portare in salvo almeno i rifugiati più vulnerabili sarebbe sufficiente che i principali paesi europei ne accogliessero 2-300 a testa».

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