Il Partito democratico ha perso il suo popolo. Le recenti elezioni hanno confermato la triste realtà: nel giro di pochi anni sono scomparsi milioni di voti e storiche roccaforti rosse. Intanto al Nazareno si scoprono tutti i limiti strategici di un movimento incapace di fare opposizione, ancora impreparato a offrire un’alternativa alla narrazione del governo legastellato. E così, in attesa di trovare un nuovo leader, il Pd resta in mano alla vecchia classe dirigente. Alla faccia della tanto invocata novità. La discussione interna rimane circoscritta ai soliti protagonisti: cordate e correnti che portano sulle spalle la responsabilità delle ultime disfatte. Sconfitto e scomparso. Come se non bastasse, in queste settimane il Partito democratico è uscito di scena. Il fallimento peggiore è avvenuto sul piano mediatico. Il vicepremier Matteo Salvini è ovunque, i Cinque Stelle riescono ancora a conquistare un po’ di visibilità. Ai dem invece restano le briciole. E a volte neanche quelle. Sui giornali non passa nulla, il poco spazio a disposizione è monopolizzato da noiosissime diatribe precongressuali. Vicende troppo interne per interessare davvero gli italiani.
Tra pochi giorni l’assemblea nazionale eleggerà Maurizio Martina segretario con pieni poteri. La vera partita interna, però, inizierà subito dopo. Le correnti si stanno già scontrando sulla data del congresso. Il governatore del Lazio Nicola Zingaretti – che pochi giorni fa ha annunciato la sua candidatura – ha chiesto di organizzare l’appuntamento prima delle elezioni Europee. E con lui ci sono alcuni dirigenti che già ne sostengono la discesa in campo, da Andrea Orlando a Marco Minniti. I renziani invece puntano a prendere tempo e posticipare tutto all’autunno del prossimo anno. Mentre prosegue lo scontro tra notabili, il Pd rischia di avviarsi all’estinzione. La scomparsa degli elettori è evidente e impietosa. «I numeri sono spietati – racconta Gianni Cuperlo all’Huff Post – Dieci anni fa il Pd raccolse 12 milioni di voti. Cinque anni dopo 8 milioni e mezzo. Il 4 marzo ci hanno votato 6 milioni di italiani». In un decennio il partito ha perso per strada metà dei propri sostenitori. E non solo quelli. Le ultime amministrative hanno evidenziato un’altra preoccupante novità: non esistono più neppure le regioni rosse. In una sola tornata elettorale sono finite agli avversari storiche roccaforti come Pisa, Massa, Siena, Terni e Imola. Una sconfitta epocale che rischia di segnare un nuovo corso politico.
A parole si continua a chiedere discontinuità con il passato, a invocare l’avvento di nuove classi dirigenti. Sono immancabili gli appelli a ripartire dal territorio e avviare una nuova fase costituente. C’è una grande voglia di fare, che però si ferma regolarmente alle buone intenzioni. «Il Pd è rimasto ostaggio di una densa rete di politici di mestiere, usi fin da piccoli a combattere guerre di trincea dentro il partito per rimanere a galla»
E così il Partito democratico sta scoprendo la realtà. Dopo aver a lungo ignorato gli avvertimenti, adesso i dirigenti dem si sono resi conto di non rappresentare più il proprio popolo. Si sono accorti che gli ultimi ormai votano Salvini. I ceti sociali più deboli, chi non ha lavoro, chi vive nel disagio…. Quasi tutti hanno preferito ascoltare le risposte aggressive della Lega e la demagogia dei Cinque Stelle, voltando le spalle a chi, almeno per principio, dovrebbe rappresentarli. Nel centrosinistra qualcuno ha preso atto della novità. Anche tra i fondatori del Partito democratico iniziano i primi dubbi. «Occorre qualcosa che vada oltre il recinto del Pd», ha spiegato qualche giorno fa Romano Prodi. Di “superamento” del partito parla apertamente anche Carlo Calenda, già ministro dello Sviluppo economico e tra le poche novità sulla scena. Autore di un manifesto per la nascita di un fronte repubblicano in chiave antisovranista e antipopulista. Molti altri, invece, non sembrano rendersi conto di nulla. Certo, a parole si continua a chiedere discontinuità con il passato e a invocare l’avvento di nuove classi dirigenti. Sono immancabili gli appelli a ripartire dal territorio e avviare una nuova fase costituente. C’è una grande voglia di fare, che però si ferma alle buone intenzioni. «Il Pd è rimasto ostaggio di una densa rete di politici di mestiere, usi fin da piccoli a combattere guerre di trincea dentro il partito per rimanere a galla», scriveva pochi giorni fa Elisabetta Gualmini, vicepresidente della Regione Emilia Romagna. «Bravi a mantenere le reti che aiutano a vincere i congressi, ma estranei a quanto si muove nella società. Abituati a usare parole che capiscono solo loro».
Sullo sfondo, resta il grande tema del futuro. Qual è la strategia del Pd, quale la visione da proporre al Paese? Qualcuno punta il dito contro gli errori compiuti nelle ultime settimane. Chiudere le porte al dialogo con i Cinque Stelle forse è stato uno sbaglio. Nel partito c’è chi la pensa così. La decisione di lasciare i grillini tra le braccia di Salvini ha avuto l’effetto di un boomerang. In attesa dell’insuccesso altrui, si è assistito al proprio fallimento. E così, mentre l’alleanza legastellata è arrivata al governo e continua a crescere nei sondaggi, il Pd è finito ai margini della scena. Da qui deve iniziare la riflessione sulle prossime iniziative, a partire dal nuovo ruolo in Parlamento. Al momento i dem sembrano incapaci di rappresentare un argine al nuovo esecutivo. Sono l’espressione di un’opposizione inconsistente, nella migliore delle ipotesi. Rispondere a tutte le provocazioni di Salvini è un errore strategico che rischia di condannare i dem a una posizione irrilevante. Meglio concentrarsi sulla capacità di offrire un’alternativa. Oggi più che mai, è necessario presentare agli italiani la propria idea di Paese. Sempre ammesso che esista.