Tra dandy e rivoluzionari: l’irripetibile Capri del primo ‘900

Nella prima metà del '900 l'isola è stato il rifugio di anarchici, futuristi e profeti di varia estrazione. Un microparadiso in cui si concentrava la cultura. Un libro ripercorre quei tempi irripetibili. Di cui però ci sarebbe tanto bisogno

«Capri, prima ancora di essere un’isola, è l’Isola.» È qui che, fra il 1905 e il 1940, sulla piazzetta, al caffè o in clausura, lavorarono anarchici, socialisti, futuristi, poeti e profeti. L’isola è stata il palcoscenico estenuato di incontri e addii fra dandy radicali, esteti dannunziani, facoltosi disoccupati e dilettanti supremi: il microparadiso terrestre in cui una cultura raffinata e astenica celebrava le proprie ambasce crepuscolari e recitava la diversità, lo spleen, l’isolamento, l’insofferenza velleitaria per il proprio tempo. Ma soprattutto Capri è stata l’imprescindibile punto di convergenza per chi esplorava nuove forme di linguaggio artistico e di teorizzazione politica, elaborando nuovi progetti di umanità e generando utopie ad alto potenziale: la fucina di ideologie, movimenti e correnti che determinarono la storia europea del Novecento.

Fra gli scogli di Marina Piccola o fra le rovine di Villa Jovis si dettero convegno le personalità cruciali per le avanguardie degli anni venti e trenta: i futuristi con Marinetti, Prampolini e Depero, e i circumvisionisti; Romaine Brooks, Marevna, Walter Benjamin e Peggy Guggenheim. Nelle strade di Capri e intorno alle sue dimore spirava il vento politico dell’Est, con la Prima scuola superiore di propaganda e d’agitazione per operai fondata da Bogdanov, Lunacˇarskij e Gor’kij (nonostante l’opposizione di Lenin). Su tutti, Edwin Cerio – l’ironico bardo del cosmopolitismo caprese – accoglieva gli esuli e faceva da ponte fra la cultura internazionale e la cultura mediterranea.

In Capri Lea Vergine, Elisabetta Fermani e Sergio Lambiase raccontano prestigio e decadenza dell’isola: affrontano i labirinti delle memorie dei sopravvissuti, si avventurano nello spoglio di carte d’archivi privati o semipubblici, distillano i momenti privilegiati e ignoti di molte vite, e con l’aiuto di questi documenti originali e testimonianze vive arrivano a tratteggiare, infine, questo esterno con figure. Capri, inventario unico di storie e incontri, disegna una topografia culturale d’eccezione; narra un luogo e un tempo irripetibili, ma di cui oggi avremmo sommamente bisogno.

Ma perché proprio Capri? Perché Capri, intendo dire, e non Taormina, Positano, Sorrento o Fiesole, tutte località prescelte da raduni apparentabili sotto più d’un aspetto; o Ascona, in Svizzera, per fare un nome venuto alla ribalta, da qualche anno, a proposito di comunità squisite? Perché Capri, prima ancora di essere l’Isola, è un’isola

Si crede di conoscere Capri, ma vi sono state e vi sono infinite maniere di tradirla o di ignorarla. Per J.J. Bouchard nel Seicento, per Norbert Hadrawa alla fine del Settecento o per Ferdinand Gregorovius a metà del secolo seguente, Capri ha rappresentato un modo di compiere un viaggio in un passato che rendeva archeologico e mitico anche il presente (si pensi anche alle riletture delle cronache di Tacito e di Svetonio con le vicende di Masgaba, l’architetto di Augusto, o di Trasillo, l’astrologo di Tiberio, e di mille altri incantamenti).

Che i colori, i profumi, gli stupefacenti scenari naturali abbiano calamitato su quel trapezio di calcare, non più grande di dieci chilometri, efebi giulivi, fanciulle scostumate, clochards di lusso, eccentriche in odore di follia, belli e dannati, fa parte dei luoghi comuni della pubblicistica degli ultimi sessanta anni. E, tuttavia, questa non è che l’immagine facile di uno dei luoghi più eccitanti e più inquietanti. Pochi miti, come Capri, hanno avuto una straordinaria sfortuna postuma. Dagli inizi del secolo agli anni che hanno preceduto l’ultima guerra, l’Isola non è stata solo l’estenuata féerie di dissidenti vittoriani, esteti dannunziani, facoltosi disoccupati, dilettanti supremi, né il palcoscenico romantico di tanti «incontrarsi e dirsi addio»; piuttosto

È stolto chiedere agli dèi ciò che ci si può procurare da se stessi.

Epicuro

il polo magnetico, il punto di confluenza, la tappa obbligata, il luogo geometrico di amicizie e congedi dei più disparati destini, cardine attorno al quale ha ruotato grandissima parte della cultura e della politica dal 1905 al 1935, tanto per mettere a fuoco un periodo aureo che oggi sembra arcaico, ma il cui senso non ha cessato di lasciare aspettative.
Anarchici, socialisti, futuristi, poeti e «profeti» russi e mitteleuropei, in malattia e stravaganza, nella teorizzazione politica di respiro internazionale come nella ricerca di forme nuove di linguaggio, sulla piazzetta, al caffè o in clausura, lavorarono a Capri. E ne nacque un clima certo non secondario rispetto alla già celebrata realtà geografica di Apragòpoli, quello cioè di quartiere di esuli illustri, di traguardo di emigrati politici, di centro di artisti.
Su tutto questo s’era levato un muro di silenzio. Ecco perché dico «sfortuna postuma». La mitologia ulteriore, che s’era accompagnata a tali avvenimenti e alle eco sparse per il mondo, non si è esaurita, ma si è fatta, di lustro in lustro, sempre più remota.
Perché l’Isola, corrosa e alimentata al tempo stesso dalla sua leggenda, rimanga nella storia, prima che le cerimonie vandaliche delle cronache recenti l’eliminino del tutto, si è deciso di far luce su quella che possiamo chiamare una topografia culturale moderna.

L’accesso alla Capri nascosta non è stato facile né immediato.
Solo rovistando tra i momenti privilegiati e ignoti di molte vite, con l’aiuto di documenti e testimonianze, solo inoltrandosi nelle trame di liaisons affatturate dalla discrezione quando non dal segreto, solo affrontando i labirinti delle memorie distillate dai sopravvissuti, avventurandosi o seppellendosi nello spoglio di carte d’archivi privati e semipubblici, si è, alla fine, arrivati a tratteggiare un «esterno con figure».
Ricerche condotte nell’arco di venti mesi hanno fruttato una congerie di dati, notizie, testi, manoscritti, opere, una quantità di materiali e immagini, noti a pochissimi o del tutto inediti, di cui questo libro offre una scelta, un repertorio di indicazioni, uno stralcio di costellazioni.
Di fronte a cosa ci si è trovati? A una concatenazione di contrasti al posto di un unico tema dominante, a una scacchiera di riflessioni che si articolano a vari livelli, a varianti che si snodano all’interno di vasti disegni – ecco perché luogo geometrico – infine, a una tavola del possibile.

Le voci del coro sono spesso dissonanti, le personalità e le direzioni di lavoro di frequente diversissime tra loro, ma tutto questo variare di livelli, di spessori, di intensità, di intenzionalità si allaccia poi febbrilmente nel vortice di un rondò teso, questo sì, a una ricerca di assoluto che, nel crollo di una società e nella disgregazione dei suoi valori, tenta la via della speranza per sé e per gli altri. Siamo lontani dall’usurato cliché di maniera dell’esotismo borghese. Se è pur vero che una cultura raffinata e astenica celebrava qui le proprie ambasce crepuscolari, che superuomini in trasferta, asceti cupidi, gurine brillanti, avventurieri toccati dalla grazia si davano convegno tra gli scogli di Marina Piccola o tra le rovine di Villa Jovis, c’è, per contro, un numero imponente di personaggi che elabora nuovi progetti di esistenza, che lavora a un notevole potenziale di utopie. Vediamo: cosa significò Capri per le legioni di grandi frivoli, di dandies radicali, per i perversi che non sapevano perdere l’innocenza, per gli intriganti visitati dalla poesia, che decisero di trascinare o amministrare, per le sue strade e le sue dimore, l’ansia, l’anarchia o il disfacimento delle loro vite? Per tutta quella corte scintillante e rivoltosa (talvolta ribalda) che, comunque, ne accrebbe e decretò la leggenda in anni a noi più vicini? A tal proposito, gli itinerari che qui si è cercato di ricostruire portano ad alcune considerazioni.

Da una parte c’è l’isola vissuta come mosaico di ruderi, di antichità, di avanzi del passato romano, sul cui sfondo recitare la diversità, la nevrastenia, lo spleen, l’insofferenza velleitaria per il proprio tempo, l’isolamento; da un’altra c’è l’isola vissuta come viaggio iniziatico, educazione sentimentale, terreno naturale di intrecci favolosi, dove la erezza taciturna e il distacco ironico dell’indigeno consentono di intrattenere, indisturbati, commerci col morboso e col mistico; da un’altra ancora – ed è quella che ci interessa maggiormente – c’è la Capri di chi non si rifugia nel microparadiso terrestre come stazione di risarcimento psicologico ma, invece, esplora le trincee politiche e artistiche.

Ma perché proprio Capri? Perché Capri, intendo dire, e non Taormina, Positano, Sorrento o Fiesole, tutte località prescelte da raduni apparentabili sotto più d’un aspetto; o Ascona, in Svizzera, per fare un nome venuto alla ribalta, da qualche anno, a proposito di comunità squisite?
Perché Capri, prima ancora di essere l’Isola, è un’isola.
Nel 1516 Tommaso Moro pubblicava Nova Insula Utopia e, nel titolo, identificava l’isola con il non-luogo (utopia, dal greco ou topos, significa letteralmente non-luogo, da nessuna parte). Capri è anche un non-luogo inventato dagli uomini: essa è una forma, e questa forma è una clausura e un’esclusione. «Non si viaggia che per rinchiudersi» scriveva de Sade – o Luigi Compagnone, non ricordo bene.
L’isola ha le sue leggi, diverse da quelle del continente. C’è un che di monastico e di anarchico, una clausura e un’esclusione nell’idea di isola. L’isola esercita una vocazione oracolare: quella che affabulava russi e tedeschi, americani e inglesi, e quel tale Gilbert Clavel (che ricorda il piccolo Giovanni Friedmann di Thomas Mann) così amante del gioco degli scacchi, prima di andare a suicidarsi a Basilea.
Utopia, scacchiera, metafisica furono le passioni geometriche che, brevemente, trattennero tanti precipitosi nomadi.

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