Nel mare magnum della spesa pubblica italiana vi è un capitolo che effettivamente pare avere subito l’austerità, e non essersi ripreso neanche quando il PIL ha ricominciato a crescere.
Non si tratta però, come accaduto nei Paesi che più hanno subito la crisi, di servizi pubblici essenziali, sanità, istruzione, o degli stipendi dei dipendenti statali.
Stiamo parlando di qualcosa di meno percepibile nel breve periodo e molto di più nel lungo termine. Quando però, parafrasando Keynes, saremo tutti morti.
Ed è anche per questo che probabilmente è stato scelto proprio di sacrificare le spese in investimenti più di tutte le altre.
Si tratta di strade, ferrovie, dighe, e anche ponti, appunto. Come quelli crollati e quelli che avrebbero potuto forse alleggerire l’afflusso di traffico su questi.
Infrastrutture di ogni tipo che richiedono anni di realizzazione.
È quella spesa in capitale fisso che oggi ci vede agli ultimi posti in Europa per percentuale rispetto al PIL ad essa dedicata. Siamo terzultimi assieme alla Spagna con il 2%. Solo Irlanda e Portogallo, non a caso due dei PIIGS, fanno peggio. Se la media europea è del 2,7%, in alcuni Paesi nordici e baltici e sorprendentemente anche in Grecia invece si supera il 4%.
Non è stato sempre così. Nel 2009 l’Italia arrivò a spendere il 3,4% del PIL a questo scopo, più che in Germania (complice un crollo del denominatore, il PIL appunto, quell’anno).
Già allora tuttavia il gap rispetto alla media UE stava aumentando, rispetto agli anni in cui era vicino allo zero, all’inizio del millennio.
Il trend poi è continuato, sia durante gli anni della recessione, che in quelli della ripresa, la differenza rispetto agli altri Paesi si è allargata.
Anche rispetto alla Germania. Per la prima volta spendiamo in capitale fisso meno del Paese di Angela Merkel (sempre in rapporto al PIL, si intende).
Quella Germania che è sempre stata accusata di tenere stretti i cordoni della borsa proprio nella spesa per infrastrutture, nonostante i tassi bassi. Persino il non certo anti-tedesco ex premier Monti aveva fatto notare direttamente a Schauble quanto sarebbe stato conveniente per tutti poter investire di più nel suo Paese.
Ebbene, oggi siamo noi a risultare più “tirchi” in questo frangente.
Cosa accade? Si tratta di una imposizione europea? I vincoli di Maastricht e gli accordi con la Commissione Europea ci impediscono di spendere e di fare investimenti indispensabili?
In realtà non sembra. Perchè negli altri capitoli di spesa gli stessi tagli non vi sono stati, e non risultiamo tra gli ultimi in Europa allo stesso modo.
Per esempio se prendiamo a termine di paragone il 2000 la spesa corrente è salita in 17 anni del 45,3%, a dispetto di un calo del 4,7% di quella in capitale fisso, ovvero per investimenti.
Un gap che non si incontra nè in Francia nè in Germania, per esempio, nonostante anche qui, e soprattutto Oltralpe, la spesa in conto capitale sia cresciuta meno.
Anche prendendo come termine di paragone invece il 2009, l’inizio della crisi, il gap è ugualmente evidente. + 4,3% la spesa corrente, -37,9% gli investimenti pubblici.
Un po’ in tutta Europa questi ultimi sono stati lasciati indietro, un segno dei tempi (nella UE in media sono scesi del 8,2%, a fronte di un + 13,9% per la spesa corrente), ma solo in Spagna tra i grandi Paesi si è fatto peggio che in Italia.
In Germania per esempio le due crescite sono sono andate di pari passo.
Gli investimenti sono rimasti indietro anche rispetto ad altri capitoli importantissimi. I consumi finali dello Stato, come sono indicati in ambito ragionieristico, di fatto il welfare pubblico, cresciuti anche se di poco, gli interessi che paghiamo sul debito, decollati nel 2012 e poi ridotti, e anche gli stipendi pagati ai dipendenti pubblici. Che sono diminuiti più che altrove, è vero (del 4,5%), grazie al blocco del turnover, ma non come la spesa per investimenti.
Il risultato è che nel complesso nella spesa corrente oggi rimaniamo al di sopra della media UE, con il 48,9% del PIL contro una media del 45,8%. Così come ovviamente nella spesa per interessi, 3,8% contro il 2%.
Mentre siamo al di sotto della stessa media per quanto riguarda consumi finali e stipendi pubblici, ma in nessun caso al terzultimo posto come per la spesa in capitale fisso.
Si è trattato in realtà di una cosciente e soprattutto indipendente scelta dei governi italiani, che hanno preferito nel corso degli anni, dal 2000 a oggi, e in particolare dopo il 2008-09, tagliare negli investimenti, nelle infrastrutture, e di non farlo altrove, o di farlo in misura molto minore.
Una strategia portata avanti pressochè da ogni governo, e anche indipendentemente dalla congiuntura economica.
Non sono stati i lacciuoli di Bruxelles, che guarda caso non hanno provocato alcun taglio in molti altri capitoli di spesa, ma a quanto pare soprattutto considerazioni politiche. La consapevolezza che in una fase di sempre maggiore disincanto dell’opinione pubblica e ostilità verso la politica, l’esborso immediato di denaro pubblico, che sia per un bonus bebè, o un bonus cultura, o uno sgravio fiscale, è molto più produttivo, almeno in apparenza.
Mentre la costruzione di strade e ponti spesso attira grane immediate (le immancabili proteste nimby) e produce vantaggi molto in là nel tempo, magari in un’epoca in cui al taglio del nastro vi sarà qualcun altro, un avversario politico.
È stata una rinuncia consapevole, che oggi paghiamo tutti, l’ennesimo capitolo nel libro del declino italiano.