Una generosità che lo apparenta al vampiro. Nel 2014 capii in cosa consistesse l’estrema vitalità di Pier Paolo Pasolini, incrociando alcune sue lettere. Il 16 maggio del 1953 Pasolini aveva compiuto da poco 31 anni, aveva già subito il processo per atti osceni in luogo pubblico, e la sospensione dall’insegnamento e la cacciata dal PCI. Era a Roma, tentava con il cinema, dopo le “Poesie a Casarsa” stava lavorando a “La meglio gioventù”, il primo romanzo, “Ragazzi di vita”, sarebbe uscito per Garzanti nel 1955. Piuttosto, aveva appena concluso il lavoro, fondamentale, per Guanda, sulla “poesia dialettale del Novecento”. Fu allora che con una lettera che sarà fatale per il destinatario, Pasolini si avventa su un quindicenne di talento, Cesare Padovani, un giovanissimo poeta veronese, un “diverso” come lui – alla diversità congiunta all’attività lirica, nel caso Padovani c’era la diversità fisica, perché il ragazzo era paraplegico dalla nascita. Cesare Padovani, che si laureò a Bologna con una tesi su Pasolini – “la tua tesi era molto bella: ma non mancherà occasione di parlarne, prima o poi”, recepisce, nel dicembre del 1965, Pasolini, ma non se ne parlerà mai più… – diventerà un intellettuale dal talento entusiasta ed eccentrico, forgiando la sua vita a Rimini. Tra i suoi libri importanti, ricordo “Paflasmòs” (Diabasis, 2008), “Farfalle. Aforismi” (Il Vicolo, 2011) e studi decisivi su limiti e convenzioni legati all’handicap come “La speranza handicappata” (Guaraldi, 1974) e “Handicap e sesso: omissis. Elogio della disobbedienza sessuale” (Bertani, 1978). Quest’anno Padovani, che se ne è andato nel 2014, avrebbe compiuto 80 anni, la sua attività inesausta è ancora una scoperta bibliografica (l’editore Pazzini ha appena pubblicato “Nuvole architettoniche”, dedicato a Ilario Fioravanti) e il suo “patrimonio culturale”, leggo, torna a Nogara, dove Cesare, per tutti ‘Cesarino’, è nato. Nel 2014, nell’ambito dell’antologia di racconti di Padovani pubblicata da Guaraldi come “Da uomo a uomo”, ho recuperato il carteggio con Pasolini. Padovani conservava quel fascio di lettere come una reliquia, come un segno del destino, e ribadì sempre quanto fosse stata decisiva l’irruenza di Pasolini – per quanto fugace – nella sua vita. Le prime lettere, che ripubblico insieme a un brandello introduttivo, testimoniano la fame, la ferocia, la radicalità anticonformista di Pasolini. (d.b.)
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Cesare Padovani, intellettuale anticonformista, quest’anno compirebbe 80 anni. Tra il 1955 e il 1965 ha avuto un fitto rapporto epistolare con Pier Paolo Pasolini
Un ragazzino. Un ragazzino diverso. Minato dall’alterità, con il muso, la lingua, la parola deposti tragicamente – perciò, in fioritura di gioia – nell’altrove, nell’andirivieni di ciò che è ambiguo e intoccabile. Nella vita di questo ragazzino di Nogara, nel veronese, irrompe, “sconosciuto e irrichiesto”, il genio e il mostro, il maestro e il violentatore, “il mio profeta”, lo chiamerà, molti anni dopo, il ragazzino, pigliando spunto da un’altra lettera, di composta bellezza, “sono veramente felice e orgoglioso di avere sentito in te la ‘buona qualità’ culturale in un momento della tua vita in cui bisognava essere un po’ profeti per farlo…”. Cesare Padovani aveva quindici anni il 16 maggio del 1953, quando riceve la prima lettera di un uomo di diciassette anni più grande di lui, un trentenne ferocissimo, lo si vede dalla lettera, che penetra le esistenze, le stupra, le svagina, le esaurisce. Ha la generosità spassionata della levatrice, Pier Paolo Pasolini, ma in fondo chiede sudditi, anela obbedienti, come fosse il fondatore di una illecita regola monastica. L’occasione sono alcune poesie nel dialetto di Verona: Pasolini le intercetta su Oggi e subito avvinghia il ragazzino. Lo fa con ansia competente, l’anno prima aveva pubblicato per l’editore Guanda l’antologia decisiva sulla Poesia dialettale del Novecento, che “non posso mandarti […] perché non ne ho più che una copia per me”. Al ragazzino spedisce, allora, una placca di versi in friulano, Tal cour diun frut. Con una dedica che è pretesa di fratellanza: “a Cesarino Padovani come a un antico me stesso miracolosamente nuovo, coi più affettuosi auguri dal suo Pier Paolo Pasolini”. Demiurgo e dio mondano, Pasolini dona il nome alla sua creatura: da allora Cesare Padovani sarà per sempre, per gli amici e i familiari, Cesarino. La prossimità tra Pasolini e Padovani è netta e simbolica: PPP, che stava lavorando a Ragazzi di vita (il 22 luglio del 1955, nell’unica lettera autografa, in grafia febbrile, “Ragazzi di vita non dovrebbe – secondo la morale corrente – essere un libro per ragazzi: soprattutto per un ragazzo come te (e com’ero io, alla tua età) […]. Non vorrei che il mio libro – che parla di ragazzi tanto diversi da te – ti avesse scosso troppo violentemente”), rivede in Cesarino la medesima tensione al dialetto (“devi sapere che anche io a diciotto anni ho cominciato a scrivere dei versi in dialetto”), va da sé, ma soprattutto l’abisso nella malattia (“la mia malattia non era fisica né nervosa, ma psicologica”), l’esilio in profetica diversità. […]
Il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e Cesare Cesarino Padovani si sostanzia in nove lettere, tutte battute a macchina dallo scrittore friulano, tranne una, autografa, scritta a Ortisei il 22 luglio del 1955. Ogni lettera ha in calce la firma di Pasolini e alcune correzioni – insieme all’intestazione – redatte a penna. Alcune di queste sono state raccolte nel volume delle Lettere di Pasolini, curato per Einaudi da Nico Naldini, nel 1988, oggi introvabile se non in fornite biblioteche. L’ultimo biglietto di Pasolini è del dicembre del 1965, in cui l’onnivoro e onniveggente scrittore si complimenta con il “caro Cesare” per la tesi da lui discussa all’università di Bologna, sulla Poetica di Pier Paolo Pasolini, con Luciano Anceschi e Renato Barilli quali relatori. Ormai Pasolini è il geniale poeta de Le ceneri di Gramsci e de La religione del mio tempo, il provocatorio regista de Il Vangelo secondo Matteo, nel biglietto si fa riferimento a Uccellacci e uccellini, “che mi occupa (deve esser pronto per la fine di gennaio, e non potrò staccarmi un giorno da moviole e microfoni”). La disperata vitalità di Pasolini, l’energia moribonda, si avverte in questo (“Sto scrivendo poi tanto, nottetempo e nelle mattine domenicali”) come in altri biglietti dove è quasi un mantra l’assenza di tempo, gli impegni, il precipizio di chi prevede che la sua esistenza – come quella degli dèi – sarà breve e tempestosa. Non muoiono mai maturi, gli dèi, solo all’uomo è data l’immaturità del ricordo, l’immortalità. […]
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