Sicuramente, quando – come annunciato prima del suo viaggio a Washington – il premier Giuseppe Conte incontrerà la stampa per ragguagliarla sui contenuti del suo incontro con Donald Trump, saprà spiegare con dovizia di particolari dove starebbe per l’Italia l’interesse di aprire le porte del mercato libico del gas, dove l’ENI fornisce l’80% dell’energia elettrica, agli americani, i quali formalmente vorrebbero vendere il loro gas naturale liquefatto (LNG) all’UE. Di più, certamente ci saranno ragioni profonde per operare, di fatto, in modo da provocare un aggravio sulla bolletta del gas del nostro Paese, un qualcosa certamente di meno aleatorio del supposto appoggio americano alla Conferenza sulla Libia da tenere in Italia, ovvero allo sgarbo del secolo verso Emmanuel Macron. Altrimenti, c’è il forte rischio che la cosiddetta “cabina di regia” italo-americano per la Libia si tramuti nell’ennesima fregatura che gli Stati Uniti rifilano al nostro Paese. Oltretutto, con il fortissimo rischio che al danno si unisca anche la beffa. E una di quelle che non si scordano facilmente.
Perché se alla fine il senso della visita di Giuseppe Conte alla Casa Bianca sta tutto in questo intreccio di interessi e se nessuno è così candidamente idealista da pensare che questo non sia parte integrante della politica, soprattutto dei rapporti internazionali, ci sono un paio di problemi accessori non da poco con cui fare i conti. Primo, con il suo atto, Giuseppe Conte ha schierato il nostro Paese a fianco degli USA e dichiaratamente contro Germania e Francia, tramutandoci ufficialmente in quel grimaldello che la Casa Bianca intende utilizzare per scardinare e distruggere il suo nemico principale, l’Unione Europea. E non per battaglie ideali, sovraniste, anti-burocratiche o anti-elite: meramente per interesse commerciale, perché quello europeo è il mercato più grande e ricco. E procura noia, molta noia a chi come gli Stati Uniti strepita a giorni alterni (è di ieri l’intenzione di riaprire il dialogo con la Cina sul commercio, vediamo quanto durerà) contro le violazioni delle regole della concorrenza leale e poi è il primo a violarle sistematicamente. Secondo, quale prezzo pagherà l’Italia agli USA per “beneficiare” dello status di migliore amico, non solo politicamente? Ma soprattutto, sempre legato a questo secondo punto: invece di sproloquiare di allarme razzismo in Italia (talmente alto è l’allarme che la manifestazione per contrastare il fenomeno, il PD l’ha convocata con calma e dopo le ferie, a settembre col freschetto), facendo così il gioco elettorale di Salvini, perché l’opposizione – di centrodestra come di sinistra, ammesso che esista – non chiede conto a Giuseppe Conte, ufficialmente, della sua scelta di posizionare in maniera così netta il Paese in una disputa internazionale che in autunno diverrà vero e proprio scontro? Aveva un mandato parlamentare, nato da una discussione sulla linea del governo? Di più, esiste in tal senso una linea di governo?
Giuseppe Conte ha schierato il nostro Paese a fianco degli USA e dichiaratamente contro Germania e Francia, tramutandoci ufficialmente in quel grimaldello che la Casa Bianca intende utilizzare per scardinare e distruggere il suo nemico principale, l’Unione Europea
Quindi, dobbiamo pensare che l’elettorato di Lega e M5S sia felice, in cambio di una non meglio precisata “cabina di regia” congiunta con Washington sulla Libia, di diventare il pretoriano degli USA in seno all’UE, di fatto voltando le spalle non solo a Paesi fondatori come Germania e Francia ma anche, di riflesso a livello di scenari geopolitici e conseguenti interessi contrapposti, a Russia e Cina? Perché la questione, non si limita al gas, già di per sé dirimente. Nell’incontro fra Trump e Juncker della scorsa settimana, infatti, con medesima leggerezza di firma, il presidente della Commissione UE, pur di evitare o ritardare i dazi statunitensi, ha infatti dato l’ok all’acquisto in massa di soia statunitense (il cui export ha pesato da solo per l’1,06% del 4,1% di dato record del PIL americano del secondo trimestre, per capirci sulla strategicità di tutte le mosse di Washington) e appunto di LNG, il gas naturale liquefatto, il quale viene trasportato in Europa via nave, con una aggravio di costi notevole rispetto a quello russo – già più economico di partenza – e che arriva in Europa comodamente via pipeline. Ovviamente, mossa strategica: quel gas, al centro anche della discussione fra Trump e Conte, andando a impattare sull’export russo va a colpire anche il progetto Nord Stream 2 che quella commodity la vedrebbe arrivare – con grande scorno del Dipartimento di Stato USA, preoccupato «per l’indipendenza e la sicurezza energetica europea» – direttamente in Germania, oltretutto bypassando quel “protettorato” statunitense decisamente inviso a Mosca e chiamato Ucraina.
Di più, la presunta spartizione del gas libico fra Italia e USA non fa di certo felice la Francia, la quale ha notoriamente mire egemoniche su quel Paese e le sue risorse energetiche, come ci insegna la scriteriata decisione del 2011 di Nicolas Sarkozy di muovere guerra contro Gheddafi. Bene, oggi stiamo facendo lo stesso: non muoviamo aerei da combattimento, non schieriamo truppe ma, di fatto, andiamo in guerra contro Parigi e Berlino. Il problema non è, capiamoci, il fare il proprio interesse nazionale. Anzi. Il problema risiede però nel rischio di scatenare una guerra nella convinzione di avere accanto un alleato invincibile che, in realtà, geopoliticamente ed economicamente parlando, è un gigante con i piedi d’argilla, ormai. Debito fuori controllo, tanto che proprio ieri il Tesoro statunitense, al netto del Budget tutto deficit presentato da Trump per il 2019, ha alzato a 1,33 triliardi di dollari le necessità di finanziamento (e quindi di emissione e quindi di indebitamento) per l’anno in corso, 769 miliardi dei quali solo nel secondo trimestre. Ovvero, da adesso in poi. E poi, tornando alla questione relativa al conto in bolletta che pagheremo per la posizione assunta da Giuseppe Conte sulla questione gas, occorre sapere dell’altro. Anzi, sarebbe decisamente bello e interessante saperlo. Perché nel silenzio totale e con la scusa della chiusura, quanto mai opportuna e ad orologeria dei due maggiori porti libici, Ras Lanuf ed Es Sider, a causa di attacchi armati di sempre più sedicenti gruppi terroristici, nel mese di giugno l’Italia ha importato petrolio statunitense a livelli record, stando a dati resi noti da Thomson Reuters e dall’azienda di shipping intelligence Kpler. Stando al report, «il flusso riflette la crescente capacità dell’industria petrolifera americana di fungere da fornitore alternativo, quando contenuti conflitti regionali vanno a intaccare gli approvvigionamenti di petrolio degli alleati».
Senza che nessuno se ne accorgesse, lo scorso mese otto navi da trasporto hanno lasciato il Golfo statunitense in direzione Italia portando l’ammontare record di 4,93 milioni di barili di petrolio, circa 165mila barili al giorno per il mese di giugno, stando alla Kpler. E dove ha sede la Kpler, così attenta nel rendere noto quanto era ignoto o sfuggito ai più, ovvero la nuova dipendenza italiana dal petrolio USA, tutta figlia di scelte geopolitiche e geostrategiche? Casualmente, a Parigi. Un’escalation, quella della nostra sete di crude statunitense, salita e di parecchio rispetto ai 3,3 milioni di barili di maggio e agli 1,9 milioni di aprile. Stando a calcoli preliminari di Kpler, per il mese di luglio concluso ieri, l’ammontare di petrolio USA portato in Italia via mare sarà stato di circa 2,14 milioni di barili. E i francesi ci hanno tracciato bene, davvero bene. Sappiamo tutto, anche le date: la NS Artic, vascello noleggiato dalla svizzera Vitol SA e battente bandiera liberiana (sembra la storiella di Manuel Fantoni in Borotalco ma è pericolosa realtà) è partita da Freeport, in Texas, il 30 giugno con a bordo stipati 513mila barili di petrolio ed era attesa in Italia, nel report non viene specificato il porto, il 24 luglio scorso. Quindi, già a destinazione prima che Giuseppe Conte volasse a Washington a sancire il “contratto”, a quanto pare all’oscuro di Commissioni e Parlamento. Ma non basta. Sappiamo anche la United Kalarvryta, una nave di proprietà del trader di materie prime svizzero Mercuria e battente bandiera delle Isole Marshall, ha lasciato la costa della Lousiana il mese scorso, sempre diretta nel nostro Paese con a bordo circa 1 milione di barili di petrolio. Così come la Atlantic Explorer, tanker della Chevron Corporation, la quale è partita dal Beaumont Terminal (nel portofolio Phillips 66) in Texas, il principale del Golfo, con a bordo 625mila barili, sempre stando ai precisissimi dati della Kpler. E attenzione, perché c’è della strategia studiata dietro la mossa, per porre in essere la quale il Congresso ha infatti messo mano a un bando sull’export di greggio vecchio di 40 anni già sul finire del 2015 (ancora sotto l’amministrazione Obama), rendendo possibile le esportazioni di petrolio estratto da scisto in West Texas, Oklahoma e North Dakota sui mercati europeo e asiatico, normalmente dominati da OPEC e rivali storici nell’ambito energetico, come la Russia.Da allora in poi, casualmente, sempre più tensione geopolitica attorno ai choke-points petroliferi maggiori, stretto di Hormuz e Bab-el-Mandeb in testa attraverso le guerre proxy contro l’Iran (Yemen in testa). Per Jim Krane, docente in studi energetici alla Rice University del Baker Institute for Public Policy di Houston, «gli Stati Uniti stanno diventando un fornitore stabile di petrolio che può arrivare sui mercati che altri non possono raggiungere. Quando vediamo turbolenze in Libia o nell’Africa dell’Ovest, il petrolio dagli Stati Uniti sarà il sostituto del futuro».
E, non a caso, l’America sta rincorrendo la Cina nell’occupazione militare dell’Africa, con il pretesto della lotta contro Isis, Al Qaeda e affiliati vari, avendo di fatto decuplicato la presenza militare dal 2005 ad oggi. Volete qualche numero? Le truppe Usa hanno condotto in territorio africano qualcosa come 3.500 fra esercitazioni, programmi e simulazioni all’anno, circa 10 missioni al giorno, stando al comandante in capo di Africom, generale Thomas Waldhauser. Lo stesso capo del Pentagono, James Mattis, ha detto chiaramente all’Armed Services Committee del Senato non più tardi del novembre scorso che questo numero è certamente destinato a salire nel futuro prossimo: nel primo anno di operatività, il 2008, l’Africa Command Usa ha dato vita a 172 missioni ed esercitazioni. Nel 2013 erano già 546, mentre oggi parliamo di 3.500, un aumento del 1900% da quando il comando è stato attivato. Il tutto, nel silenzio generale dei grandi media. E non basta: Africom solo lo scorso anno ha lanciato 500 raid aerei in Libia, mentre le truppe al suo servizio hanno utilizzato attacchi con droni o in assetto di commando in Somalia. A oggi, parliamo di personale militare Usa nell’ordine delle 5-6mila unità dispiegato nel continente africano. Ogni giorno. E sempre non a caso, la Cina ha fatto di tutto per aprire la sua prima base militare all’estero nello strategico porto di Djibouthi, dove era già presenta la base USA di Camp Lemonnier, a ridosso proprio del choke-point di Bab-el-Mandeb. Di fatto, perché occorre essere realisti al limite del cinismo, un’Africa, Maghreb in testa, sempre più destabilizzata fa soltanto comodo agli interessi contrapposti delle due superpotenze, dominio energetico in testa. Forse, sarà anche per questo che del massacro sistematico di civili in corso da anni in Yemen non interessa nulla a nessuno.
Ora, al netto di tutto questo, qualche domanda al primo ministro si impone. E sarebbe carino che fossero proprio gli azionisti di maggioranza del suo governo a porgliela, ammesso e non concesso che siano al corrente di certe scelte. Ad esempio, vale la pena davvero schierarsi così platealmente con gli USA nella lotta globale per le risorse energetiche? Vale davvero la pena e siamo nella condizione di metterci in minoranza, oltretutto ostile, in seno all’UE sull’argomento e non solo? E se un domani quei tutt’altro che sicuri, rapidi ed economici approvvigionamenti via mare venissero a mancare per mille motivi, la Russia non potrebbe farci pagare il conto della nostra scelta, magari in pieno inverno? E se davvero il ministro Tria ha intenzione di piazzare parte del nostro debito post-QE (400 miliardi di rifinanziamento all’anno) in Cina, facendo fruttare le sue conoscenze, come reagirà Pechino, la quale sta addirittura emettendo – e con grande e sempre crescente successo – contratti futures sul petrolio in yuan (per i contratti sulla consegna di settembre, si parla di 275.006 lots, stando a dati di venerdì scorso, contro i 40.656 del primo giorno di trading lo scorso maggio, per mettere in prospettiva i volumi) per bypassare il dollaro come valuta benchmark sul mercato delle commodities, alla scelta di Giuseppe Conte? Ricordate le parole del “saggio” Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nella sua intervista dello scorso sabato al Corriere della Sera? «In autunno i mercati ci bombarderanno, dobbiamo farci trovare pronti». Guardate questa tabella:
È relativa alle detenzioni di BTP delle principali banche estere: chi ne ha in pancia di più? Forse lo stesso Paese che ha tracciato così bene le spedizioni di greggio USA verso il nostro Paese? E a cui stiamo facendo un enorme sgarbo in Libia? E con un presidente traballante che necessita di recuperare consensi? Ricordate, la crisi del debito 2011 partì dalle banche tedesche, non da Wall Street. Qualcuno sta scherzando con il fuoco, rischiando un dejà vu che sarebbe devastante per il Paese, da arrivo quasi immediato della Troika, stante la situazione economica e le politiche quantomeno astratte del governo? Chissà, magari il premier vorrà offrire qualche risposta.