A ogni festività, ormai, il mondo del commercio italiano è in agitazione. È successo a Pasqua, il 25 aprile, il Primo Maggio. E pure a Natale. Colpa delle aperture straordinarie di domenica e nei festivi, ormai diventate un’abitudine. Gli esercenti italiani, unico caso in Europa, in teoria possono tenere su le serrande 365 giorni l’anno, senza limiti. La proposta del governo gialloverde di regolamentare le aperture per questo non è una sorpresa: ci aveva provato il M5s nella scorsa legislatura, la questione era nei programmi elettorali di grillini e leghisti, e c’è anche un disegno di legge targato Pd che mira a mettere un po’ di regole nella totale liberalizzazione italiana.
Il tema è dibattuto molto in Europa, mentre dappertutto si tenta di replicare anche offline i ritmi 24 ore su 24, sette giorni su sette, dei grandi “centri commerciali online” come Amazon. In Italia più che altrove. Visto che dal 2012 in poi, con il decreto “Salva Italia” del governo Monti, il nostro Paese è diventato patria della deregulation del commercio, con la piena liberalizzazione degli orari e delle giornate di apertura dei negozi.
Persino in una patria del liberismo come il Regno Unito gli orari di apertura di domenica sono regolati in base alla metratura di supermercati e negozi. E gli addetti al commercio lavorano cinque giorni su sette, e non sei su sette come in Italia. Da noi, dal 2012, a decidere non sono più Regioni e Comuni, ma i singoli commercianti. Tant’è che lo scorso dicembre abbiamo anche assistito al primo sciopero del Natale, dopo che la direzione del centro commerciale di Orio Center, quello di fronte all’aeroporto di Bergamo, ha comunicato ai dipendenti che sarebbero stati aperti anche il 25 dicembre. Mentre il resto del mondo intonava già Jingle Bells.
Persino in una patria del liberismo come il Regno Unito gli orari di apertura di domenica sono regolati in base alla metratura di supermercati e negozi
Prima siamo partiti con qualche negozio aperto di domenica, poi le domeniche sono diventate tutte. Mentre il contratto del commercio, che in teoria prevede la possibilità di scegliere se lavorare o no di domenica, si è frammentato tra diverse associazioni di categoria. E il risultato è una giungla tra chi applica le maggiorazioni da festivi e chi no; chi rispetta il diritto di non lavorare e chi no.
Finché, da consumatori, ci siamo abituati a fare shopping il Primo maggio, anziché andare al mare. O a fare “lunghe” passeggiate nei centri commerciali la domenica pomeriggio, al posto della gita fuori porta. E con i consumatori, anche i lavoratori che stanno dall’altra parte, hanno ribaltato le proprie abitudini. Fino a vivere le cosiddette “settimane al contrario”. Per loro, domenica e festivi sono giorni come gli altri: quando amici, figli e parenti riposano, vanno al cinema o a cena fuori, loro lavorano di più; i quando i commessi riposano dal lavoro, gli altri non ci sono.
Che siano state le aperture domenicali a mandare in crisi la famiglia, come ha detto il vicepremier Luigi Di Maio, sembra un po’ azzardato. Ma basta chiacchierare con i commessi nei centri commerciali per accorgersi come in questi anni, tra turni bizzarri comunicati all’improvviso, in tanti siano finiti per divorziare e restare soli.
Ora in commissione Attività produttive è stata incardinata la proposta che porta come prima firma quella della leghista Barbara Saltamartini di limitare le aperture alle sole domeniche del mese di dicembre più altri quattro giorni festivi durante l’anno. Un totale di otto aperture straordinarie. Come già si fa in molti Paesi europei. Il testo presentato dal sottosegretario Davide Crippa, dei Cinque stelle, prevede invece la libertà completa del “Salva Italia” solo per i comuni turistici, mentre altrove per ogni settore merceologico non può restare aperto nei festivi più del 25% dei negozi, per un massimo di 12 festività annue per ogni singolo esercizio commerciale.
Non si può impedire ai siti Internet di ecommerce di restare aperti di domenica e nei festivi, come anche Di Maio aveva irrealisticamente proposto. Ma anche in Italia era arrivato il momento di discuterne. L’importante è che lo si faccia seriamente
L’ultimo Paese in Europa ad aver messo i paletti alle aperture festive, dopo anni deregulation, è stata la Polonia dallo scorso marzo. In Francia, il tema è nel pieno del dibattito politico, con la maggioranza che vuole estendere il lavoro domenicale. Da ministro dell’Economia di Hollande, Emmanuel Macron aveva introdotto una nuova regolamentazione distinguendo tra zone turistiche e tra negozi di alimentari e non: per i negozi che non vendono cibo, la decisione spetta ai sindaci dei comuni, e la paga per i lavoratori, che accettano volontariamente di lavorare, deve essere doppia. Altri Paesi, hanno stabilito un numero massimo di festivi lavorativi. In Germania le regole variano per land, ma in ogni caso un negozio non può aprire per più di dieci domeniche all’anno, e con un orario ridotto. In Olanda, tranne che per le zone turistiche, il limite è di 12. In Spagna i regolamenti regionali non vanno oltre le otto-dodici aperture festive. Paesi come Svezia, Estonia e Irlanda non hanno regole restrittive, ma autorità locali e sindacati possono normare gli orari delle attività commerciali nei giorni festivi e nelle ore notturne. Persino negli Stati Uniti “che non dormono mai” le contee posso decidere, come è successo, introdurre divieti locali.
Non si può impedire ai siti Internet di ecommerce di restare aperti di domenica e nei festivi, come anche Di Maio aveva irrealisticamente proposto. Ma anche in Italia era arrivato il momento di discuterne. L’importante è che lo si faccia seriamente.