La bocciatura è arrivata. Annunciata, scontata, inevitabile. Ce la siamo presa in faccia con la stessa rassegnazione e strafottenza di certi compagni di scuola, lasciati soli davanti ai quadri di fine anno. Eravamo preparati a sentirci dire che non andava bene la manovra non solo perché sapevamo anche noi che questa manovra non andava bene ma anche e soprattutto perché sapevamo che a noi italiani non sarebbe mai stato concesso nessuno sconto. Da Bruxelles ora parleranno i professori, ci spiegheranno quante volte hanno invece chiuso gli occhi nei nostri confronti e di quanta flessibilità abbiamo goduto ma la loro voce è già finita sullo sfondo, come una vecchia tiritera inefficace. In questo momento siamo il popolo più scettico, quello che più di tutti si chiede quale sia il vantaggio a restare imbarcati in questa avventura che si chiama Europa. E pensare che solo fino a 5 anni fa gli italiani votarono in massa il Partito Democratico, riposero la loro fiducia ancora una volta in un progetto europeista, si affidarono alla voce di chi prometteva di andare a Bruxelles per ragionare: di migranti, di bond europei, di investimenti strutturali.
Ora, per i partner europei, siamo tornati ad essere “i soliti italiani”, allergici al sacrificio, alla responsabilità, al senso del dovere. Anzi, sembra quasi che ci aspettassero, che aspettassero di rivederli gli italiani simpatici e inaffidabili, quelli che si presentano con il compito scritto a metà e per giunta con cifre che non stanno in piedi. Eccoli qui. Sembra una di quelle storie da Libro Cuore: le pagine peggiori, quelle del Franti, che su quelle pagine non ha mai avuto né mai avrà possibilità di redenzione.
Da 26 anni siamo campioni mondiali di avanzo primario. Dal 1992, cioè da quanto firmammo i patti di Maastricht, nessun altro paese ha tenuto sotto controllo i propri conti come l’Italia
A nulla infatti ci vale l’evidenza schiacciante dei numeri. A nulla vale una verità che in Europa continuano a ignorare: da 26 anni siamo campioni mondiali di avanzo primario. Dal 1992, cioè da quanto firmammo i patti di Maastricht, nessun altro paese ha tenuto sotto controllo i propri conti come l’Italia. Se non ci fosse stato il debito pubblico pregresso, avremmo accumulato nei nostri forzieri oltre 300 miliardi di euro.
La Germania, che è il paese più virtuoso dopo di noi, nemmeno si avvicina a un terzo di quella cifra. Quanti redditi di cittadinanza avremmo finanziato con quei soldi? Quante flat tax? Quanti incentivi all’innovazione? E invece, per tenere fede alla nostra parola, abbiamo drenato tutte quelle risorse dal sistema e le abbiamo bruciate per pagare gli interessi al falò del debito pubblico, al falò di una colpa che è la stessa che ci sentiamo rinfacciare da 26 anni. E no, non ci sono stati sconti: nonostante il rigore dimostrato, non c’è stata la mutualizzazione dei debiti, non c’è stata la sterilizzazione da parte della banca centrale europea, non ci sono stati eurobond. Ognuno per sé, in questa Europa retta da un paese (la Germania) che nella sua lingua non sa distinguere la parola debito (Schuld) dalla parola colpa (Schuld).
Certo che l’abbiamo fatto noi, quel debito. Ma noi chi? 26 anni sono una generazione. Da tempo ormai vota una classe di elettori che nemmeno sa da dove viene questo debito, che nemmeno sa a che cosa è servito ma che ne percepisce soltanto il fardello: la sensazione, cioè, di partecipare a una corsa truccata. Perché questo sforzo ha significato stipendi più bassi rispetto agli altri, meno opportunità, risorse tagliate alla scuola, più disoccupazione. E volete che prima o poi non fossimo andati a votare con rabbia? Quanto tempo sarebbe passato prima di arrivare a dove siamo ora? A una bocciatura, accolta come se da Bruxelles non arrivasse altro che un “bla bla bla” senza senso, accolta con la strafottenza di chi finge che non faccia male. Quando invece, ne fa eccome.