Se non riuscite a imparare l’inglese, potete sempre ripiegare sulla lingua Scots

Parlata in Scozia, non va confusa con lo scozzese gaelico (di tipo celtico): è una lingua germanica che continua la tradizione dell’inglese come era prima della Conquista normanna, avvenuta nel 1066

In Scozia si parla inglese, scozzese e poi, cosa che non tutti sanno, la lingua Scots. Per la precisione, non è sicuro se sia una lingua o un dialetto. Diatriba annosa e penosa, tanto che nel 2010 ha portato il governo scozzese a fare un sondaggio. Il 64% delle risposte (su mille persone) non pensava che lo fosse, ma la cifra non è indicativa: chi lo parla (il 58% delle risposte) è convinto di sì. Chi non lo parla, (il 72%), è convinto di no.

Il problema (che è anche la ragione di tanto scetticismo) sta nel fatto che la lingua Scots è molto simile all’inglese. Anzi, è una continuazione della lingua anglosassone, almeno per come era prima dell’invasione normanna di Guglielmo il Conquistatore, avvenuta (come tutti sanno) nel 1066. Isolata oltre il confine – o meglio, le colline che separavano i due territori – la lingua Scots è rimasta immune da tutti i francesismi importati dai nuovi padroni della zona del sud. Non solo, si è imposta e ha soppiantato, in quella che sarebbe diventata la Scozia, tutte le lingue incontrate sul suo cammino: quella dei pitti, dei galli, dei britannici, dei vichinghi, lasciando spazio solo a un poco di gaelico e, soprattutto, continuando a considerarsi inglese, anzi, “inglis”.

Nei secoli la sua fortuna crebbe: divenne lingua franca nel XVI secolo, poi lingua di corte, vennero tenuti registri e documenti ufficiali in lingua Scots. Aveva vinto, o almeno sembrava. Nel 1603, re Giacomo di Scozia divenne re di tutta l’Inghilterra e ne approfittò per trasferirsi a Londra. Una mossa decisiva: da quel momento, abbandonata a se stessa e priva di un Parlamento, la corte di Edinburgo scomparve. Gli intellettuali, sempre bisognosi di soldi e commissioni, seguirono il re e adottarono nelle loro opere il linguaggio della nuova sede, cioè quell’inglese ormai molto diverso dall’inglis parlato in Scozia.

Fu la fine, o meglio: l’inizio di una lunghissima decadenza. La lingua Scots è ancora viva, e parlata. E, addirittura, riesce a espandersi (a spese dello scozzese gaelico). Classificata come lingua germanica, mantiene intatti alcuni suoni pre-conquista, come “ch” di “necht” (notte) e “fecht” (combattimento), subisce influenze nordiche (le -ch diventano k, come kirk, chiesa), presenta movimenti vocalici insoliti (“house” è “hoose”) e mette “the” in posti in cui gli inglesi non lo metterebbero mai, nemmeno da ubriachi – situazione non insolita – cioè davanti ai giorni della settimana.

Per capirsi, questo è un passo del Vangelo di Matteo:

This is the storie o the birth o Jesus Christ. His mither Mary wis trystit til Joseph, but afore they war mairriet she wis fund tae be wi bairn bi the Halie Spírit. Her husband Joseph, honest man, hed nae mind tae affront her afore the warld an wis for brakkin aff their tryst hidlinweys; an sae he wis een ettlin tae dae, whan an angel o the Lord kythed til him in a draim an said til him, “Joseph, son o Dauvit, be nane feared tae tak Mary your trystit wife intil your hame; the bairn she is cairrein is o the Halie Spírit. She will beir a son, an the name ye ar tae gíe him is Jesus, for he will sauf his fowk frae their sins.

E questa è la poetessa Christine De Luca (cognome non tipico scozzese) che parla in lingua Scots nella variante dialettale delle isole Shetland.

(Sì, sembra un italiano che parla male inglese)

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